Il sequestro Moro /17
Il sequestro Moro /17
“Ripristinando la pena di morte le Brigate Rosse si sono poste al di fuori di quella legalità rivoluzionaria che follemente dicono di rappresentare. Si apre per tutti noi un duro avvenire. Ma per loro è l’inizio della fine”. E’ la dichiarazione di Leonardo Sciascia alla notizia della condanna a morte di Aldo Moro.
Ogni speranza era precipitata con il comunicato numero sette, il famoso, tragico “settimo sigillo” e la fotografia del prigioniero inviata dalle Br e pubblicata in prima pagina e in grande formato da tutti i giornali. A Moro, collocato davanti ad un gigantesco drappo con la scritta Brigate Rosse e la stella a cinque punte, hanno messo in mano il giornale “la Repubblica” del giorno precedente che ha come titolo a carattere di scatola “Moro assassinato?” Si legge sui quotidiani: “nella foto scatta con una Polaroid il prigioniero vi appare non deperito”, però il volto è segnato da una profonda sofferenza, né poteva essere diversamente con quel titolo che il condannato era costretto a mostrare: il prematuro annuncio della sua uccisione.
Il giorno dopo il segretario della Dc Zaccagnini riceve un’altra lettera che molti giornali non pubblicano in attesa che qualcuno decida se l’ostaggio potrà essere barattato con tredici “prigionieri comunisti” o se nell’Italia nata dalla Resistenza, che ha abolito la pena di morte, che ha già sopportato nel segno del terrorismo la tragedia di Piazza Fontana, può consegnare un suo cittadino ad un boia che dopo un processo popolare celebrato in una prigione del popolo, lo ucciderà nel nome del popolo. Che è quello italiano.
Si apprende che nelle stanze di Piazza del Gesù dove troneggiavano le gigantografie di don Luigi Sturzo e di Alcide Degasperi, “la Dc è lacerata dal dubbio”. Preme, con forza, né poteva essere diversamente, la famiglia dell’ostaggio: chiede “che il partito dichiari la propria disponibilità ad accettare, quali siano, le condizioni per il rilascio del suo presidente”, cioè scarcerare i tredici per salvare Moro e il partito nulla potendo fare, si rivolge alla Caritas Internazionale che 42 anni fa era un’entità quasi ignota. Si spera in una mediazione di quell’ente che qualcuno, in quei giorni di convulsioni, indicò come inutile. Tutti avevano campito che oltre quella della trattativa sullo scambio – e Panama aveva detto di essere pronta ad accoglierli – non c’erano altre vie da imboccare mentre i vertici dello scudo crociato continuavano a confermare “la propria indefettibile fedeltà allo Stato democratico, alle sue istituzioni e alle sue leggi in operante solidarietà con i partiti costituzionali”. La citata solidarietà indicata come collettiva si era subito sfaldata perché il partito socialista di Bettino Craxi – morirà anni più tardi in forzato esilio in Tunisia ad Hammamet – ha già rotto la “operante solidarietà” deciso a salvare la vita di Moro. Insomma, trattare con i terroristi “per scongiurare il sacrificio della vita umana innocente”. E’ una scelta lecita? Cosa diranno le vedove, gli orfani, gli amici, i commilitoni dei cinque Caduti in via Fani? Nella caserme si avvertiva l’irritazione, ma si capiva perfettamente – e questo era compreso da tutti – che era assurdo far morire la sesta persona per un’astratta ragione di Stato che non tutti avevano capito e men che meno apprezzato.
La lettera al “Caro Zaccagnini” sconvolge quanti la possono leggere perché molti giornali non l’avevano pubblicata e 42 anni fa non c’erano quei canali dell’informazione che oggi, in vero, anche imperversano macinando e rimacinando identiche notizie. Dopo via Fani, la tragedia di Moro è in quelle lucide righe, la lettera di un condannato a morte che spera, ancora, nella grazia. E’ incredibile, ma tutto questo è accaduto in casa nostra solo quattro decenni fa.
Dalla “prigione del popolo”, afferma che “si può trovare una soluzione equilibrata rispettando quella ispirazione umanitaria, cristiana e democratica alla quale si sono dimostrati sensibili Stati civilissimi… Con profonda amarezza e stupore ho visto che in pochi minuti, senza nessuna seria valutazione umana e politica, si è assunto un atteggiamento di rigida chiusura. L’ho visto assumere dai dirigenti Dc, senza che risulti dove e come un tema tremendo come questo sia stato discusso”. Aggiunge Moro. “Voci di dissenso, inevitabili in un partito democratico come il nostro, non sono artificiosamente emerse… Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese?”. E ancora: “Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetuato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Si aprirebbe una spaccatura con le forse umanitarie che ancora esistono in questo Paese… Dite subito che non accettate di dare una risposta di morte… Ricordo che la Costituzione repubblicana, come primo segno di novità, ha cancellato la pena di morte. Così, cari amici, si verrebbe a rintrodurre…”.
Può sorprendere quel “Cari amici” che non furono né cari né amici. A questo punto bisogna leggere il grande scrittore, appunto Sciascia. “Nella sede centrale della Democrazia Cristiana, nella romana Piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho definito, per come mi pare e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di perone, amici di vecchia data dell’onorevole Moro, solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal carcere del popolo e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale per comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica sono stati vicini. Non è l’ uomo che conosciamo. Con la sua visione spirituale, politica e giuridica che ha ispirato il contributo alla stesura della Costituzione repubblicana”. Qualche anno dopo, durante il processo agli assassin i di Moro, gli “amici” che lo avevano indicato come “strumento passivo nelle mani dei brigatisti” vennero smentiti da Eleonora Moro: “Tutto in quelle lettere apparteneva a mio marito. Il contenuto, il pensiero, il modo di parlare, di esprimersi, la sua logica. Quelle lettere erano scritte da lui, pensate da lui”. E i citati “amici” rimasero in silenzio.
Sciascia aggiunge: “Si sa come in Italia, e specialmente tra gli intellettuali, si raccolgano adesioni a manifesti e dichiarazioni di protesta civile: spesso per telefono, sommariamente comunicandone il contenuto. E distrattamente, fidando nella comunanza di idee o di opinioni con colui che la chiede, l’adesione vien data: come a scrollarsi un fastidio che frequentemente ricorre. E possibile, dunque, che qualcuno con uguale distrazione abbia aderito a questa dichiarazione su Moro… Ma non si doveva. Non si trattava di una protesta civile, ma piuttosto di una incivile protestazione”.
Probabilmente Sciascia si riferiva a quella massa di intellettuali che nel 1971 avevano firmato il tragico appello a margine della strage di Piazza Fontana e della morte giù dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano dell’anarchico non violento Giuseppe Pinelli. Ecco le prime righe del citato appello: “Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi… “. Il commissario Calabresi che non era nella stanza con quella finestra attraverso la quale passò il corpo del ferroviere, venne poi assassinato da chi lo aveva ritenuto responsabile del defenestramento. Perché questa era l’Italia degli anni di piombo e di sventure.
Scriveva Luciano Azzolini il giornalista, parlamentare trentino e amico, sicuramente sincero, di Aldo Moro: “Sono passati decenni. Quattro. Ma la storia è ancora qui. In tanti anni si sono succedute diverse stagioni della politica, del costume e della società. E’ caduto il muro di Berlino, ma altri muri si sono innalzati, è arrivato internet e il mondo digitale, si sono fatti sentire gli effetti della globalizzazione. Anche la chiesa con l’arrivo di papa Francesco è cambiata. Eppure quel giovedì mattina del 16 marzo è ancora qui…”. Ma intanto una parte della generazione di Italiani che 42 anni fa vissero quella tragedia è stata spazzata via dal morbo velenoso che ci assedia. Da bambini avevano sopportato la guerra, sentito raccontare la spagnola quando erano stati portati a pregare – c’era stata un’epidemia di morbillo – nella chiesa di San Pietro davanti alle reliquie del Simonino, proclamato beato perché ucciso dagli ebrei ma negli anni Sessanta declassato a bimbo morto per annegamento. Avevano seguito le oceaniche processioni della Madonna Pellegrina nei giorni che in Italia si decideva se stare con l’ Unione Sovietica votando il Pci di Palmiro Togliatti oppure con Occidente votando la Democrazia Cristiana di Alcide Degasperi ma anche di Aldo Moro eletto deputato Dc all’Assemblea costituente del 1946, consacrato agli inizi degli anni Cinquanta nel congresso della Dc tenuto a Trento per diventare il bersaglio delle Br, l’uomo simbolo dello Stato Imperialista delle Multinazionali, quel Sim esistito solo nelle fantasie dei brigatisti rossi. In vero sta scomparendo una generazione che ha vissuto – chi soffrendo chi gioiendo – quei 55 giorni. Scompaiono i testimoni, ma già da tempo quello di Moro e degli uomini che lo accompagnavano nell’istante di Via Fani, è un capitolo quasi uscito dalla memoria.
(17, continua )