Il sequestro Moro /20
Il sequestro Moro /20
E’ il 25 Aprile il giorno in cui si celebra la Liberazione dal fascismo e dal nazismo. Sale la marea della retorica mentre gli italiani partecipano alla più bella festa laica. Per un giorno, solo un giorno, si sentono partigiani di qualche cosa. Oggi si combatte il morbo maledetto: sono passati 75 anni da quella primavera di resurrezione del 1945 e siamo nella morsa di una dura battaglia, una ecatombe che si sta portando via molti, troppi testimoni di quelle giornate che stanno uscendo dalla memoria.
In quel 25 Aprile di quarantadue anni fa si parlò del “valore indistruttibile della Democrazia Cristiana” e il nome di Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse venne elevato a resistenza contro le bierre, ma a nessuno venne in mente che i brigatisti erano molto simili alle “ss” che fecero strage alle Fosse Ardeatine nel 1944 a Roma. Una dimenticanza che è diventata vergogna. Nel 1978 si cantò “Bella Ciao” che sul finire dell’Ottocento era, con altre parole, la canzone di protesta delle mondine del vercellese e nelle piazze dove le bandiere rosse della Fgci – i giovani del Partito comunista – sembravano fare da baluardo a quelle bianche dei giovani democristiani. Si gridò “ora e sempre Resistenza” mentre qualche tempo prima, nell’epoca dell’autunno caldo, quelli della sinistra avevano cantato: “Il 25 aprile è nata una puttana – le hanno messo nome – Democrazia Cristiana”. Si celebrava la sconfitta di due dittature: quella di Mussolini e quella di Hitler, ma nella Capitale, nella città dei colli fatali dell’Impero fascista c’era, chiuso in una “prigione del popolo”, il presidente della Democrazia Cristiana. Condannato a morte. Non era mai successo nella storia d’Italia un delitto politico così lucido e spietato e anomalo dove il condannato non accusa i suoi assassini, ma attacca coloro che avrebbero potuto salvarlo, ma pur potendolo, non lo hanno fatto.
La Resistenza, certo. Un valore indistruttibile anche per i brigatisti convinti di essere i continuatori di quella stagione. Credevano di esserne figli, erano convinti di doverla ripetere, di essere i nuovi partigiani come qualcuno di loro fece capire una trentina di anni fa, in una intervista alla televisione. La rivoluzione era già stata sfiorata il 14 luglio del 1948, tre mesi dopo quella giornata che aveva visto la Democrazia Cristiana di Alcide Degasperi uscire vittoriosa, anzi trionfatrice, dalle urne elettorali. Insomma la guerra partigiana l’avevano sofferta, combattuta e vinta soprattutto i comunisti, ma nelle elezioni aveva trionfato la Dc. La scintilla che aveva scatenato la rivolta era scoccata davanti a Montecitorio dove alle 11.45 di quel giorno Palmiro Togliatti il capo del Pci, era stato ferito dalle revolverate di un ultranazionalista. In poche ore l’Italia si era trovata sull’orlo della guerra civile; quanti erano stati partigiani avevano ripreso le armi e la guerra c’era stata in Toscana, ad Abbadia San Salvatore, sulle pendici del Monte Amiata. I partigiani avevano bloccato il valico di Radicofani ai piedi della rocca di Ghino di Tacco, all’epoca – non c’era l’autostrada – strada di collegamento fra il Nord e il Sud d’Italia, fra Firenze e Roma e tagliato il cavo coassiale interrompendo le comunicazioni telefoniche – passavano tutte da lì – fra Milano e Roma. C’erano stati morti, feriti in mole città del Nord, ma per volere di Togliatti e, forse, per la straordinaria vittoria di Gino Bartali al Giro di Francia, si evitò una tragedia: la guerra civile. Un inciso: Togliatti, uscito dal coma, per dimostrare al prof. Pietro Valdoni che lo aveva operato estraendogli il proiettile dalla testa, si rivolse in latino e il medico gli rispose in greco. Insomma, altri tempi, altri personaggi, altre culture.
Nel 1975, tre anni prima di quel 25 Aprile con Moro prigioniero, si erano commemorati, “solennemente” come scrissero i cronisti, i trent’anni della riconquistata libertà. In un fondo del quotidiano La Stampa si leggeva una frase amara: “La democrazia in Italia compie trent’anni e l’anniversario non cade in giornate felici. Ci turbano i mali della Repubblica, ma ancor più le minacce alla Repubblica. Constatiamo con preoccupazione che questa democrazia non è ancora stabile e sicura”. I segnali sempre più negativi di crescente insofferenza verso partiti e uomini – le donne nella politica erano pochissime – che guidavano il Paese arrivavano dal passato remoto, dalla metà degli anni Cinquanta mentre l’ Italia stava cambiando sotto lo sguardo di una classe politica troppo impegnata in quella che il giornalista Indro Montanelli ha sempre indicato come “dedita a piccole o grandi manovre dai contorni bizantini ma, nel concreto, per mantenere i privilegi acquisiti”. Così non si riuscì a percepire il forte mutamento in atto, che era sociale, culturale, economico, il primo dopo la fine della guerra. Gli avvenimenti incalzavano e diventavano molto confusi; il tempo ormai trascorso li ha relegati nelle soffitte della memoria, ma c’è l’elezione a Presidente della Repubblica di Antonio Segni sostenuto da Aldo Moro. Settant’anni, sardo di Sassari, eminente professore universitario di diritto, Segni ascese al Quirinale con i voti determinanti di monarchici e missini mentre il Governo si reggeva sui voti dei socialisti. Insomma, una stridente anomalia.
Scrisse Italo Pietra che aveva combattuto in Abissinia e in Albania e dopo l’8 settembre del 1943 aveva comandato le formazioni partigiane dell’Oltrepò pavese de poi diventò uno dei giornalisti più prestigiosi d’ Italia, dunque un uomo deputato a raccontare, che “la Resistenza che è stata guerra di popolo ed esortazione alla politica, diventa una festa ufficiale come una panchina verniciata, un amarcord struggente come le adunate degli ex Alpini e degli ex Bersaglieri. Si celebra quella data alla presenza delle autorità civili e militari, le bande suonano “Ciao, bella ciao” al cospetto dei prefetti e delle scolaresche e dei sindaci con la fascia Tricolore. Che cose si vuole di più? Se si chiudono gli occhi sui soliti diluivi della solita retorica, la giornata del 25 Aprile può andar bene. E’ il resto dell’anno che non va e che aggrava l’antico male italiano del cinismo e della politica pasticciata”.
Ma nel 1978 dominava la strategia della tensione, che ha alle spalle lunghi anni indisturbati mentre saliva la febbre dei giovani. Si erano accorti delle conseguenze del lungo malgoverno e la Dc che smarriti gli insegnamenti e gli ammonimenti di Aldice Degasperi, godeva del frutto dei propri errori lanciando la formula della lotta contro gli “opposti estremismi” a maggior gloria del centrismo presidiato dallo scudo crociato. Si chiude un occhi sui tumulti, sui vandalismi, sulle goliardate del voto politico, sulle auto in fiamme a segnare il percorso dei cortei e i giornali che assediano il malgoverno chiamano Moro “il pesciolino rosso che nuota nell’acqua santa”.
Oggi la grande annata del 1945 può fare da pietra di paragone e da spartiacque fra i vecchi e i giovani. Per gli uni continua a segnare la fine dalla seconda guerra mondiale e del fascismo; per gli altri l’inizio dell’ era della Bomba Atomica che dando alle guerre un carattere catastrofico di distruzione dell’ umanità, avrebbe dovuto imporre all’uomo un modo profondamente nuovo per fare politica. Il morbo infame sta decimando la generazione che ha percepito quel 1945 e non ha fatto in tempo a raccontarlo tutto. Ha subito molte tragedie. Alluvioni, terremoti, la tragedia del terrorismo. Pur agonizzante per l’inesorabile trascorrere degli anni grida ancora: “Ora e sempre Resistenza”.