Sanità, più forza al territorio
Sanità, più forza al territorio
Forse è perché siamo ancora nel pieno della pandemia, con tutto ciò che significa sul piano delle cose da fare in urgenza per contrastarla e per proseguire la campagna vaccinale, ma il dibattito sulla riorganizzazione della sanità, nato su queste pagine un paio di mesi fa, si è pressoché esaurito.
Sono principalmente due i temi emersi come fonte di criticità nella gestione della pandemia: il primo si riferisce alla crescente presenza dell'iniziativa privata, quella profit in particolare, nei servizi sanitari; il secondo chiama invece in causa l'impoverimento e la debolezza della medicina territoriale. Se la prima questione si pone, per ora, con maggior forza in altre Regioni rispetto alla nostra, la seconda ci interessa e coinvolge in pieno.
Ma se si vuol cogliere l'occasione di un grande salto di qualità, non bastano i pannicelli caldi: un medico in più qua, due soldi in più là. Ci vuole più coraggio.
Lo spunto che propongo viene da lontano, dagli anni immediatamente successivi all'approvazione della legge di riforma 833 del '78, che istituiva in Italia il Servizio sanitario nazionale. Essa, come tutte le grandi leggi quadro di riforma, prevedeva una serie di leggi attuative che, come spesso accade, hanno tardato ad arrivare, molte si sono anche arenate. Una di queste, proposta come disegno di legge della Provincia di Trento all'inizio degli anni '80, riguardava proprio la medicina territoriale.
Si prevedeva di suddividere il Trentino in aree omogenee in cui vivessero mediamente 10/15 mila abitanti, definendole come unità di base per l'organizzazione dei servizi sanitari. A questo livello doveva far riferimento l'erogazione dell'assistenza medica, pediatrica, ostetrica di base, quella infermieristica e domiciliare, l'assistenza sociale, l'assistenza veterinaria, gli interventi di riabilitazione e reinserimento, l'educazione sanitaria, le attività di osservatorio, vigilanza e informazione.
Nel progetto queste unità erano definite Distretti sanitari di base. Poi non se ne fece nulla e, alcuni anni più tardi, la parola distretto venne riutilizzata per indicare una articolazione molto più vasta, dai contenuti prevalentemente amministrativi, organizzativi e burocratici, la cui dimensione territoriale coincise più o meno con i Comprensori. Pensiamo come sarebbe utile avere un presidio come il Distretto sanitario di base, così capillare sul territorio, nell'attuale emergenza della pandemia, per l'individuazione tempestiva di focolai, per il tracciamento, per il monitoraggio della terapia domiciliare, perfino per l'organizzazione del piano vaccinale.
Ma sono convinto che andrebbe molto bene anche in tempi ordinari. Infatti l'invecchiamento della popolazione, che comporta un inevitabile incremento delle malattie degenerative e croniche, espone fasce crescenti di popolazione a situazioni di fragilità che troppo spesso vengono riconosciute solo quando superano la soglia della crisi acuta sia essa prevalentemente sanitaria o sociale. Nel Distretto sanitario di base, come originariamente pensato, medici, infermieri, operatori sanitari, assistenti sociali che operano su uno stesso territorio potrebbero integrarsi per monitorare la situazione sanitaria delle comunità, migliorare l'accessibilità e coordinare gli interventi nell'ottica della continuità assistenziale e terapeutica.
In questa direzione dovrebbe procedere l'auspicato rafforzamento della medicina territoriale. Negli anni scorsi l'Azienda sanitaria cominciò a muoversi in questa ottica con la proposta delle Aggregazioni funzionali territoriali (AFT) che però hanno incontrato resistenze e inciampi nell'affermarsi.
Ora bisogna accelerare e avere più coraggio. Dobbiamo passare dalla logica dell'«incentivazione all'associazione» di medici e operatori, alla previsione dell'equipe territoriale come forma necessaria e ordinaria per l'esercizio della medicina di base. Per andare in questa direzione l'ex ministro della sanità Sirchia ha suggerito addirittura di proporre ai medici di base lo statuto del rapporto di dipendenza. Ma in Trentino potremmo intanto usare gli strumenti contrattuali integrativi di livello provinciale per introdurre in modo più stringente modalità operative che si muovano in questa direzione.
Nel mio ragionamento non parlo degli ospedali periferici. Io penso che essi debbano essere difesi, rafforzati e valorizzati, ma nell'ottica di divenire sempre più il terminale efficiente di una rete ospedaliera provinciale integrata, superando definitivamente logiche di separatezza e autoreferenzialità. Distribuire qualche eccellenza o specialità in più, non ha nulla a che vedere col rafforzamento della medicina territoriale che dobbiamo perseguire.
Maurizio Agostini
Medico e Consigliere provinciale Acli