La “prigione del popolo” di Aldo Moro
Era il 9 maggio di 43 anni fa quando a Roma, quelli delle Brigate Rosse uccisero Aldo Moro facendo trovare il suo corpo nel bagagliaio di una Renault color amaranto parcheggiata in via Caetanei, strada tra via delle Botteghe Oscure dove aveva sede il Partito Comunista Italiano e piazza del Gesù all’epoca sede della Democrazia Cristiana di cui Moro era Presidente.
Ci avviciniamo al mezzo secolo e così, nella strage di via Fani con il rapimento di Moro per mano delle BR, ci fermiamo sulle immagini che ci fanno più comodo o che ci appaiono più utili o, più banalmente, quelle che ancora abbiamo nella memoria. E allora il miglior ricordo, come nelle lettere dei Martiri della Resistenza, è nelle parole che nell’ora dell’addio Moro scrisse alla moglie: “Bacia e carezza per me, tutti. Volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte mia dolcissima in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire coi miei piccoli occhi mortali come ci vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”.
Nella “prigione del popolo”, quei criminali del “tribunale del popolo” – anche questo orrore c’era nell’Italia di quell’epoca emotivamente disastrata dalla tragedia di Piazza Fontana – gli avevano detto, fin dal 15 aprile, che lo avrebbero ucciso. Non si ricordavano che la Costituzione repubblicana, che ebbe in Moro uno dei padri, come primo segno dell’ irreversibile cambiamento, aveva cancellato l’orrore della pena di morte.
Lui era già stato politicamente abbandonato quando un gruppo di “amici” aveva sottoscritto quel mostruoso documento nel quale si legge “il Moro che parla dalla prigione del popolo non è il Moro che abbiamo conosciuto” e con un linguaggio lucidissimo, in verità fino a quel momento sconosciuto, aveva risposto il 27 aprile “… non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia. Ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di esser preso sul serio”. Poi, in un crescendo disperato chiedeva quello scambio di prigionieri che riempie decine di lettere uscite dalla “prigione” sintetizzandosi nella frase “da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente [Moro] sopravvive e, a compenso, altra persona [i 13 terroristi indicati dalle Br] va, invece che in prigione, in esilio?” E poi una riga che molti quotidiani non pubblicarono: “… nella Dc non si affrontano con coraggio i problemi. E al caso che mi riguarda, è la mia condanna, sostanzialmente avvallata dalla Dc, che nulla fa se un suo militante fedele sia condotto a morte”. Moro pensava che lo scambio fosse da accettare “realisticamente“. Come scrisse disperatamente più volte contrapponendo una vita umana contro astratti principi. Può un cristiano esitare sulla scelta? Certo c’erano quei cinque uomini dello Stato massacrati in via Fani. Ma quei cinque morti facevano ragione che ce ne fosse un sesto? Mancavano 12 giorni all’ uccisione e nella lettera c’ è quel “Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli”. Il segretario della Dc e il Governo avevano deciso di non trattare con le Brigate Rosse “per il rispetto che si deve alle famiglie i cui congiunti sono stati trucidati dai brigatisti”. Dunque, non solo per essere a fianco dei familiari del Caduti di via Fani, ma di tutte le vittime di quella ancora inspiegabile follia collettiva che dopo il 25 aprile del 1945 aveva insanguinato l’Italia.
Con Moro nella “prigione del popolo” si celebrò il giorno della Liberazione e il Primo Maggio con i giovani democristiani a gridare “Zaccagnini tieni duro - contro le Br facciamo muro”. Ma i brigatisti, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista, marxisti imbizzarriti e stolti, si erano convinti di essere i nuovi partigiani discendenti di quelli che avevano vinto con le armi i nazifascisti però sconfitti nelle urne del 18 aprile del Quarantotto – di 30 anni prima – e gridavano intrisi da una smania di giustizia efferata, “uccidere un fascista non è reato - ogni partigiano ce lo ha insegnato”. Ecco “i compagni che sbagliano” secondo il lessico dei fedeli al Pci e le Br ad additare il prigioniero come capo dello “Stato Imperialista delle Multinazionali” che è “la somma di tutti i fascismi”. Per inciso: le maiuscole servono a cavarne la sigla SIM, ma i brigatisti non potevano sapere che quella era la targa del Servizio Informazioni Militari in auge dal 1925, quindi dall’ epoca fascista al 1945 l’anno della fine della dittatura.
“Era impensabile e impraticabile, politicamente e giuridicamente, una trattativa tra lo Stato e le Br, qualora il partito armato avesse inteso proporre scambi ed erigersi ad interlocutore paritario delle Istituzioni” come scrisse 10 anni fa sul giornale l’Adige, Giorgio Postal uomo di profonda cultura, per sei legislature deputato e senatore, testimone in Parlamento di quei 55 giorni di angosce. Oggi sappiamo che le Br volevano il riconoscimento politico da parte dello Stato e usarono Moro che se non si fosse mostrato disposto a collaborare, nessuna sua lettera sarebbe uscita dalla “prigione del popolo”.
La trattativa imposta dai Br, altrimenti si poteva uccidere anche lui nella trappola di via Fani affratellato nella morte a quei cinque servitori dello Stato, venne accolta dal prigioniero. Voleva che la polizia lo trovasse e perciò agevolò i contatti adoperandosi perché fossero lunghi, complessi, contraddittori. Gli sarà parso il solo mezzo per guadagnare quel tempo che poteva portare, sia pure per caso, sulle tracce della “prigione del popolo”. Sperava nella trattativa, nello scambio di lui prigioniero con altri prigionieri indicati dalle Br più che nelle forze dell’ordine incapaci di raggiungere un risultato. Ci fu un unico successo: un solo brigatista arrestato, quel Cristoforo Piancone che la guardia carceraria Lorenzo Cotugno riuscì a ferire prima di essere colpito a morte. Insomma, un caso. L’ inefficienza degli investigatori appare macroscopica. se si pensa che la prigione di Moro venne cercata alle Viote, si proprio quelle del Monte Bondone, c’è da restare stupefatti. L’informativa era arrivata dal Viminale perché a Trento c’era stato quel Marco Pisetta di Spini di Gardolo, brigatista della, quasi, prima ora però indecifrabile “collaboratore” dei servizi segreti dell’epoca. Così sotto gli occhi stupefatti di centinaia di fondisti, decine di uomini armati perquisirono il Rifugio Viote, alcune baite, qualche fienile. Si era capito che i brigatisti telefonavano sempre dalle cabine della stazione Termini presidiate dal Bersaglieri e pertanto la “prigione” doveva essere a Roma: bastò il nome di Pisetta a far pensare ad un trasferimento di Moro sul Bondone.
L’Italia si lacerava sul dilemma di una vita contro astratti principi. C’erano quei cinque uomini della scorta massacrati al momento del rapimento con Moro a scrivere: “Se la scorta non fosse stata per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui”. Gli uomini di scorta hanno pagato con la vita quella inefficienza, conseguenza di uno Stato che non li aveva adeguatamente addestrati. Domenico Ricci, appuntato dell’Arma, autiere, da 21 anni sempre con Moro, lo aveva portato nel Trentino, in Valsugana e nel Primiero nei giorni dell’alluvione del novembre del 1966 e poi negli incontri, riservati, con il leader della Svp Silvius Magnago per parlare del “dopo” la notte del Sacro Cuore, quella del giugno del 1961, la “notte dei fuochi”; il maresciallo Oreste Leonardi, istruttore nella scuola sabotatori del centro militare paracadutisti di Viterbo, era diventato nel 1963 capo della scorta di Moro con il quale strinse un legame di fiducia e di simpatia. Lo ricordiamo molto bene quando Moro veniva a Trento ogni agosto, per l’anniversario della morte di Alcide Degasperi. Spalancava la portiera della berlina, aiutava il presidente a scendere, prendeva dal bagagliaio le due grosse borse di cuoio chiaro, saliva in fretta le scale della sede, in via San Francesco della Dc dove lo attendevano Bruno Kessler, Giorgio Grigolli, gli altri notabili del partito, i fotoreporter Giorgio Rossi e Flavio Faganello con i giornalisti Luigino Mattei, Augusto Govannini, Gianni Faustini e nel tempo delle vacanze a Predazzo, lo accompagnava nelle lunghe passeggiate nella meraviglia del boschi della Valle di Fiemme.
Ecco dal ricordo di Luciano Azzolini, altro personaggio di punta della migliore Dc di quell’epoca, allievo all’Università di Moro, poi amico – quando il Presidente arrivava in val di Fiemme la mamma di Azzolini preparava gli strudel per Moro e per gli uomini della scorta – spiegò che Bettino Craxi tentò di salvare la vita dell’ostaggio attraverso esponenti di Autonomia Operaia, soprattutto Lanfranco Pace e Gianfranco Piperno in costante contatto con Valerio Morucci e Adriana Faranda i “postini” delle Br, che dalla “prigione del popolo” prelevavano i messaggi di Moro. Sarebbe bastata una segnalazione alle forze dell’ordine che, pedinando i postini sarebbero giunti, forse, al covo brigatista. Ma molto, in quei giorni di paura, molte cose non funzionarono fra gli investigatori.
Da tempo, i brigatisti assassini sono stati identificati, arrestati, condannati. Quelli sopravvissuti sono liberi e hanno raccontato le loro gesta. Il succedersi degli eventi sono stati ricostruiti, i covi scoperti e giudiziariamente non ci sono misteri. Non c ‘è più la Democrazia Cristiana. Non c’ è più il Partito Comunista. Non sventolano più sulle folle le bandiere con lo scudo crociato, né quelle rosse con la falce e il martello e i superstiti delle BR vivacchiano conviti di essere stati partigiani come quelli che affrontarono il nazifascismo dopo l’8 settembre del 1943. E’ scomparso un mondo. E’ finita un’ epoca e i morti di quella infelice stagione di terrore sono ricordati solo dai parenti sempre meno numerosi dato il tempo che corre in fretta. La memoria di quelle giornate sta svanendo anche perché nelle scuole la storia viene insegnata poco e la si dimentica in fretta. La prima e la seconda Repubblica sono un ricordo lontano, confuso, quasi svanito nel gorgo di “mani pulite” che incendiò gli animi quando la magistratura mostrò politici ed imprenditori nelle vesti di predoni.
Oggi rileggendo le cronache di quelle giornate vengono in mente i versi di Giuseppe Ugnaretti, quel grido d’angoscia rivolto agli uomini che calpestano la memoria con la stessa noncuranza con cui calpestano l’erba: “Cessate di uccidere i morti. Non gridate più, non gridate. Cerchiamo di ascoltare le parole di chi è stato sacrificato”. Esse “hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba. Lieta dove non passa l’uomo”.