Nel 1903 l’avvocato Menestrina demolì il falso mito del Simonino
Era stato Giuseppe Menestrina, studente nella facoltà di giurisprudenza di Graz, a demolire, ed era il primo a farlo a Trento agli albori del Novecento, quella massa di falsità che, assurte a dignità di prova scandite dai pulpiti delle chiese, avevano portato al massacro degli ebrei accusati – e avevano confessato, poi ritrattato e di nuovo confermato ogni cosa nello strazio delle torture – dell’ omicidio definito rituale di quel bimbo chiamato Simonino. Un secolo dopo la distruzione della comunità ebraica di Trento la Santa Sede – etra il 1588 – ammise ufficialmente il culto del Simonino concedendo l'indulgenza plenaria a chi fosse andato in pellegrinaggio presso le reliquie il giorno dedicato al “martire”. Assurto alla gloria degli altari rimase, venerato, fino al 28 ottobre del 1965 quando venne abolito su indicazione di Iginio Rogger il grande storico della Chiesa.
Menestrina è stato un personaggi di rilievo nella storia del Trentino ai tempi dell’Austria di Francesco Giuseppe. Nato a Tione il 16 ottobre del 1881, si era iscritto nella facoltà di giurisprudenza di Innsbruck per passare a quella di Graz dove ottenne la laurea. Nell’epoca universitaria era entrato nella Società Studenti Trentini ispirata a sentimenti liberali e tesa verso un’autonomia amministrativa da Vienna e da Innsbruck. Partecipò a quella puntigliosa campagna politico-culturale per creare una Università italiana a Trieste culminata nei famosi incidenti di Innsbruck che videro fra i protagonisti Alcide Degasperi, Cesare Battisti, Antonio Pranzelores. Vi furono scontri violentissimi il 4 e il 5 novembre del 1903 nel capoluogo del Tirolo con aggressioni di italiani e devastazione di negozi. I Kaiserjäger e reparti di fanteria riuscirono a contenere a fatica la furia degli assalitori; negli scontri venne ucciso il pittore di origini ladine August Pezzej che nella foga si era scagliato in avanti per finire trafitto dalla baionetta inastata sul fucile di un militare. Da ricordare che Ernesta Bittandi Battisti aveva scritto nel libro “Italianità di Degasperi-Lettera aperta all’on. Meda (p.39, secondo capoverso, ndr ): “Nessun libero patriota pensava neppure al nome di un Alto Adige da conquistare!!” E neppure ad una guerra per annettere il Trentino al Regno d’Italia.
Proprio in quel tumultuoso 1903 Menestrina diede alle stampe lo studio sulle persecuzione degli ebrei a Trento che provocò una violenta reazione da parte della Curia, accompagnata da polemiche giornalistiche definite “ardenti” dalle cronache dei quotidiani di quell’epoca, che portarono al raffreddamento, meglio sarebbe dire alla rottura, dell’ amicizia con Degasperi anche lui nato nel 1881 e, come tutti i trentini di quegli anni, devoto al bimbo beato.
Menestrina aveva letto gli atti di quel processo, si era incuriosito rendendosi conto che solo la tortura aveva costretto gli ebrei raccolti per i riti di Pasqua nella sinagoga che ancora si vede in un cortile interno di un’ abitazione di via Manci, a “confessare” quel crimine mai commesso. In verità gli ebrei avevano trovato il corpo del bimbo annegato nella roggia che scendeva verso il fiume Adige – scorreva nell’attuale via Verdi e la città era attraversata da canali alimentati dalla Fersina – impigliato nella grata della condotta che passava sotto il pavimento del luogo di culto. Il bimbo era annegato; gli ebrei lo raccolsero, si rivolsero alle autorità denunciando il ritrovamento. E tutto precipitò nel delirio e così il corpo divenne, nei secoli, uno dei simboli della lotta ai “perfidi ebrei”.
Proprio la pubblicazione, per giunta per volere di una donna, quella Ernesta moglie di Cesare Battisti che in un mondo totalmente maschilista veniva dileggiata perché atea, socialista – quando la incrociavano nelle vie della città molte pie donne si facevano il segno della croce e di lei dicevano che sapeva di zolfo, l’odore del Demonio, in quanto non sposata in Chiesa – contribuì ad accentuare la furia polemica. Menestrina aveva mostrato in maniera molto ampia, gli argomenti per confutare l’omicidio rituale rimasto a galleggiare nei secoli creando, o meglio incupendo, quel clima di odio verso i “perfidi ebrei”.
In quegli anni, in molte città dell’Europa, quasi a precedere le tragiche figure di Hitler e Mussolini, gli ebrei vivevano nei ghetti mentre il grido di “khaybar, khaybar! Eebrei, ebrei, l’armata di Maometto ritornerà” che dal 1946 anno della nascita dello stato ebraico risuona senza tregua e con rabbia crescente nella Strisca di Gaza, era scandito solo nelle scuole coraniche di Gerusalemme, Medina, Damasco, Bagdad, Costantinopoli e persino, dopo il 1911 nella Tripoli “bel suol d’amore”. Grido ampiamente tollerato dagli italiani intenti a tentare di pacificare la Libia che nel Ventennio, il Duce chiamerà “il posto al sole”. Da ricordare che khaybar è il nome dell’oasi abitata da ebrei conquistata da Maometto nel 628. Quel luogo ha assunto un significato leggendario nella prospettiva islamista della sottomissione finale e violenta delle genti ebraiche.
Nel 1905 Menestrina entrò a far parte della Pro Cultura, diventò avvocato nel 1906 e due anni dopo fu eletto presidente della famosa società, carica che mantenne fino alle giornate della vigilia della Grande Guerra.
Appunto nella Pro Cultura organizzò conferenze, incontrò e si scontrò con Benito Mussolini giornalista a Trento nella testata “il Popolo” di Cesare Battisti e di Ernesta Bittanti. Sempre dalla cattedra della Pro Cultura, tenne un corso per segretari comunali, diede vita ad un gabinetto di lettura – qualche cosa di simile venne organizzato attorno al 1970 da Ulisse Marzatico il famoso libraio di via Diaz – e allestì una biblioteca definita dall’avvocato Gino Marzani, “raccolta di importanti libri moderni”. Insomma in quella Trento che agli albori del Novecento era il balcone dell’Impero sul Regno d’Italia, si respirava un’aria intellettuale dove anche Marzani nato a Villa Lagarina, appare un personaggio di rilievo in quella sorta di primavera della cultura trentina. Anche Marzani fin da giovane si era fatto conoscere per i forti sentimenti filo italiani partecipando a quell’ associazionismo che fu, per gli irredentisti, rifugio e campo d’azione intellettuale e politico, sfociato nella Società degli Studi Storici Trentini che lo videro fra i fondatori e poi presidente. Iniziò ad esercitare la professione forense a Rovereto, nello studio di Antonio Piscel altra figura eminente nel Trentino del secolo scorso.
Subito dopo la guerra organizzò la pubblicazione del volume “Il Martirio del Trentino”, opera già conosciuta, apprezzata e utilissima per capire quell’epoca, ma oggi quasi dimenticata, che contiene numerose informazioni storiche e geografiche collegate alla prima guerra mondiale.
Per tornare a Menestrina, nel 1911 fu eletto consigliere comunale “di parte liberale” come si legge nelle cronache di quell’ elezione e nel 1914 ebbe la carica di vice sindaco. Nei primi giorni del maggio del 1915, quel “maggio radioso” per gli interventisti del Regno d’Italia, ma tragico per i tirolese, appunto come vicesindaco, prese il treno con Degasperi suo collega in consiglio, ma anche deputato al Parlamento dei Vienna, per recarsi ad Innsbruck. Scopo del viaggio: incontrare il luogotenente del Tirolo conte Friedrich Toggenburg-Sargans e protestare per le crescenti imposizioni impartite dai militari nel Trentino. Un viaggio lungo e molto lento perché ad ogni stazione il treno passeggeri diretto al nord doveva fermarsi per far transitare le tradotte che cariche di soldati, armi, cavalli erano dirette al sud per difendere i confini dell’Impero minacciati dall’aggressione italiana.
Appena arrivati alla stazione di Innsbruck, Menestrina e Degasperi si trovarono in mezzo a migliaia di soldati, raggiunsero l’edificio sede della luogotenenza che era sovraffollato e Degasperi disse “pazienza, dovremo attendere a lungo. Comunque potremo trascorrere la notte in un convento che conosco e che ci ospiterà”. Invece – questo è il ricordo di Menestrina – i due politici vennero subito ammessi nell’ufficio del Governatore del Tirolo che confinava con un salone zeppo di posti telefonici e telegrafici in ebollizione. Il Governatore “rimase in piedi tormentando l’ elsa della sciabola, non volle ascoltare le nostre istanze e mi disse di tornare subito a Trento dove mi attendeva la cartolina di richiamo alle armi. E rivolto a Degasperi gli impose di recarsi subito a Vienna dove il Parlamento sarebbe stato chiuso. Poi ordinò ad un piantone di chiamare un militare che ci avrebbe scortati alla stazione ferroviaria, io per salire sul primo treno diretto a Trento, Degaperi su quello diretto a Vienna”. L’avvocato raccontava che il soldato, baionetta inastata, si mise fra lui e Degasperi, che non li lascò né parlare né salutarsi. Partì prima il treno per Vienna e dopo due ore quello per Trento, il vagone passeggeri accodato ad una tradotta.
E’ a questo punto che comincia l’avventura di Menestrina che non voleva indossare la divisa dell’esercito di Francesco Giuseppe. Tentò di attraversare il confine scegliendo la via più difficile: il Monte Baldo perché tutti i passaggi diretti al Regno d’Italia, dalla Valle dell’Adige alla Marmolada, erano ormai presidiati dai soldati austriaci. Il Baldo era percorso da guide con un passato di contrabbandieri di tabacco italiano, molto abili a muoversi lungo sentieri davvero impervi che strapiombano sul Lago di Garda. Pochi giorni prima la fuga era riuscita a due fratelli dell’avvocato, ma la guida di Menestrina si rese conto che il transito era ormai impossibile. E allora il disertore si recò, probabilmente a piedi e facendo estrema attenzione a non incappare in una pattuglia militare che lo avrebbe arrestato, nella Valle di Sole, a Rumo, nella casa dei suoi genitori, sfollati in quei giorni da Trento che stava diventando città fortezza. Scavò una buca sotto il pavimento di una stanza al piano terreno e lì rimase fino al 5 novembre del 1918. Usciva solo nelle notti senza luna, o quelle di forte pioggia “per godere un po’ d’aria fresca e pulita”, come scrisse nel 1963 l’avvocato Gino Marzani raccontando sul giornale “Alto Adige” la figura di Menestrina. Sempre dal racconto di Marzani: “Di tanto in tanto arrivavano i gendarmi per compiere perquisizioni, perché si sospettava che si fosse rifugiato presso l’abitazione del suoi genitori”. Quasi subito, probabilmente per ordine di un furente conte Toggenburg che si sentiva gabbato dall’avvocato, era stato dichiarato disertore, processato e condannato, in contumacia, alla fucilazione, con la confisca dei beni.
Un cenno sulla figura di Fedrich von Toggenburg nato a Bolzano il 12 luglio del 1866 e morto in quella città il 5 marzo del 1956. Era stato governatore del Tirolo Vorarlberg dal 1913 al 1917; nel maggio del 1915 aveva sciolto il Consiglio Comunale di Trento e appunto nel Diciassette era stato nominato Ministro dell’ Interno nel Governo di Ernst von Feuchtenegg carica che mantenne fino al luglio del 1918. Nel 1921, dopo l'annessione del Sudtirolo al Regno d’Italia, fu eletto deputato alla Camera tra le file del partito “Deutscher Verband” nelle liste formate da slavi e tedeschi. Di orientamento conservatore, tre settimane dopo l’assassinio di Franz Innerhofer il maestro elementare di Marlengo ucciso a Bolzano da una squadra di fascisti, in un'intervista al “Corriere della Sera” a proposito di questo fatto, Toggenburg dichiarò: "Se fossi italiano, probabilmente sarei un fascista".
Ancora dalla testimonianza di Marzani. Dal 23 maggio nel 1915 al 5 novembre del 1918, quello stare nascosto in una buca è stato certamente terribile; quando uscì dal nascondiglio “portava palesi segni della sofferenza durata tanto a lungo, ma riuscì a recuperare la salute e riprendere la professione di avvocato. Due anni dopo sposò Emma Berti; la coppia ebbe una figlia, Metella. Deciso avversario del fascismo non si adattò a prendere la tessera del partito, colla conseguenza di perdere la clientela degli enti pubblici ai quali era imposto di farsi assistere solo dagli avvocati tesserati al Fascio. Quando il prefetto italo Celestino Foschi ricomparve a Trento dopo l’8 settembre del 1943 con le insegne della Repubblica Sociale Italiana, compilò subito una lista di persone da arrestare. Erano quelle che il 25 luglio, con la caduta del fascismo, avevano manifestato apertamente la loro soddisfazione per il defenestramento del prefetto. Tra i nomi, c’era quello di Menestrina”. Ma i tedeschi istituendo l’ Alpenvorland, non volevano i fascisti e Foschi, dopo un pranzo con i camerati germanici al ristorante Pavone che si apriva in via Oss Mazzurana, lasciò definitivamente la città.
La guerra finisce e nel giugno del 1945 Menestrina viene nominato presidente della Commissione di epurazione, un organismo costituito con l’incarico di rimuovere dei loro uffici le persone più coinvolte con il regime fascista. Poi assieme al fratello Francesco diede un valido apporto al primo progetto di statuto di autonomia della Regione. Nel 1950 avvenne la riconciliazione con Alcide Degasperi. C’era stata all’ Hotel Bristol una riunione di ex condiscepoli e ci fu l’incontro e l’abbraccio caloroso fra i due coetanei, fissato in una celebre fotografia.
Era il tardo autunno del 1961 quando monsignor Iginio Rogger, presbitero e storico della Chiesa trentina, il principale ispiratore dell’abolizione del culto del Simonino, bussò alla porta dello studio dell’avvocato che si apriva in via Cavour per affacciarsi sulla piazza del Duomo. Gli aprì la figlia Metella. Dal racconto di Rogger:. “Non credo che abbia scritto quanto ha scritto, in difesa del mondo ebraico del suo tempo. Ma il suo ragionamento ha seguito il metodo della ricerca storiografica che in quegli anni era molto affermata nell’Università di Innsbruck, con piena coscienza di fedeltà alla dogmatica cattolica, ma anche al mondo della Chiesa nel quale lui viveva e dal quale non si è mai distaccato. Né si è tenuto conto del rapporto che c’è fra documento e il fatto perché alcune volte i documenti possono falsificare la critica storica. Giuseppe Menestrina è stato fedele e buon cristiano fino alla fine. E’ certo che si sentì schiantato e amareggiato dal tono acerbo e dalle posizioni di puro schieramento di quel tempo, ma questo non lo ha indotto a lasciarla sua fede. Passai da lui, nel suo studio di avvocato, che aveva in via Cavour. Capitai improvvisamente davanti al tavolo dove ancora lavorava per dirgli che sentivo l’obbligo di esprimergli tutta la mia considerazione e la mia adesione verso la posizione a suo tempo presa. Aveva ottant’ anni, lo lasciai commosso”. Finalmente la Chiesa aveva riconosciuto che l’avvocato, un uomo di grande impegno civile, aveva avuto ragione. Era appunto l’ autunno del 1961. Due anni dopo il 3 dicembre del 1963, si spegneva, come scrissero i giornali dell’epoca, “una delle più note e stimate personalità cittadine”.
( 7, continua )