La Sloi e le acque dei veleni, una storia irrisolta che scorre sotto la città
La Sloi cominciò a produrre il prezioso antidetonante della benzina nella primavera del 1940, l’anno delle decisioni irrevocabili e dei passaporti consegnati agli ambasciatori di Francia e Inghilterra, insomma quando l’ Italia entrava in quella guerra che i tedeschi stavano vincendo.
La fabbrica a Campotrentino occupava 250 operai, i capi erano tecnici addestrati a Ravenna dove Carlo Luigi Randaccio, il geniale chimico che aveva reso possibile la produzione su vasta scala del nuovo prodotto divenuto indispensabile in un mondo dove la motorizzazione cresceva a ritmi impensabili, aveva fatto ricerche, esperimenti e formato i tecnici inviati a Trento.
Quello era l’anno del massimo entusiasmo per il fascismo e nell’industria italiana si respirava aria di grandezza, di potenza. Le maestranze – come si legge sulle pagine de “Il Brennero”, l’unico giornale ovviamente il regime che si stampava a Trento, invero poco letto – “non sono seconde a nessuno” anche se il Trentino restava un’area arretrata dal punto di vista industriale, perché da sempre vocato ad una difficile agricoltura di montagna e assai freddo rispetto al fascismo per via di quelle persone che, nate sotto l’Impero austriaco, si erano ritrovate il 3 novembre del 1918 sudditi italiani. Ma per lo “slancio fascista ispirato dal futurismo” la manodopera trentina “possedeva le doti caratteristiche per essere di valido aiuto al buon andamento del lavoro che esigeva tenacia, pazienza e meticolosità”. Come si legge negli articoli, dedicati al lavoro, del “Brennero”.
Nel 1941, anno di guerra ancora vittoriosa per le armate di Hitler e del Duce la produzione del piombo tetraetile era quintuplicata rispetto alla massima produzione raggiunta a Ravenna e l’impianto di Trento era diventato fra i più importati nello sforzo bellico. Dalla metà degli anni Trenta l’aviazione (“l’Arma Azzurra”, “l’Arma per eccellenza”), era diventata la prediletta del fascismo. L’Italia sotto la spinta del Futurismo e di quel “marciare, non marcire” di Filippo Tommaso Marinetti, poeta scrittore, drammaturgo e militar e aveva raggiunto molti record aeronautici: quello di altezza, di velocità su Lago di Garda dove sfrecciò l’idrovolante più veloce del mondo poi, pare, copiato dall’aviazione giapponese mentre gli idrovolanti di Italo Balbo avevano attraversato in formazione l’Atlantico per sorvolare New York e Chicago per ammarare sul lago Michigan nel frenetico, incontenibile entusiasmo degli americani.
Intanto la guerra d’Etiopia, ma soprattutto quella di Spagna, avevano mostrato al mondo gli effetti devastanti dei bombardamenti e dei mitragliamenti aerei che già avevano tragicamente sorpreso, nella prima guerra mondiale, i soldati nelle trincee del fronte occidentale.
Produzione spinta al massimo, operai esposti ad ogni rischio ma loro erano i “militi del fronte interno”; lavorando alla Sloi non sarebbero stati richiamati alle armi. Certo quello stabilimento era pericoloso, ma nessun pericolo era paragonabile a quello di un campo di battaglia.
Quelli della Sloi non erano soggetti a restrizioni, la loro tessera annonaria largheggiava nell’assegnazione dei viveri e la paga era buona. In più, per compensare le possibili intossicazioni, avevano diritto ad un litro di latte fresco al giorno, che per quei tempi non era poco. Un «benefit» che durò poi per molti decenni.
La coreografia fascista preferiva mostrare sulle pagine del settimanale “Tempo” le maestranze delle acciaierie o dei cantieri navali, i torsi nudi rigati dal sudore, rischiarati dal bagliore degli altiforni o dal sole che batteva sulle trebbiatrici; mentre il lavoro in tuta non era abbastanza virile per il “Min.Cul.Pop”, il ministero della cultura popolare che dettava ai giornali cosa dovevano scrivere e dove collocare l’immancabile foto di Mussolini.
Anche questo era il fascismo accolto dalla stragrande maggioranza degli italiani, benedetto dalla Chiesa creduto dal resto dell’Europa “la guida di una Italia divenuta potenza granitica ed invincibile” . Carlo Luigi Randaccio proprietario dell’unico stabilimento in Europa – un altro era negli Sati Uniti ma la produzione non era paragonabile a quella della Sloi – era un fascista perfetto, amico di Achille Starace che gli era stato testimone di nozze.
Un padrone che veniva dalla gavetta, severo ma giusto come si diceva all’ora, operaio fra gli operai ai quali dava del “tu” e pretendeva il “lei”, ma pronto ad offrire la sigaretta e la gratifica poiché “l’operaio che lavora bene, va premiato subito” come era solito dire e come si espresse al processo che nel luglio del 1975 lo vide imputato di fronte al tribunale di Trento.
Firmava gli ordini di servizio con la sigla “H.K” e al processo si infuriò quando l’avvocato Michele Pompermaier gli chiese se quella sigla significasse “Herr Karl”. Randaccio era scatto in piedi gridando: “Quel contrassegno non viole affatto dire Herr Karl ma era la sigla di mia moglie che io, per suo amore, apponevo a certe lettere. Il K sta per il cognome Kolwanki, con la “i” finale non con la “j” come Jaeger perché mia moglie non era ebrea, ma ariana”. E questa affermazione la dice lunga sul “credo” del padrone della Sloi.
La produzione era spinta al massimo, giorno e notte, con turni di lavoro di sei ore e molti straordinari pagati alla grande e già nel 1942, anno di guerra ricordiamolo bene, Luigi Savoi, medico, primario dell’Ospedale Maggiore di Bologna a e consulente della Sloi, compì a Campotrentino un vasto e serio lavoro di ricerca impiegando come cavie conigli, topi e gatti. Sistemò le gabbiette in luoghi dove lavoravano gli operai e constato che in un reparto la tossicità era tale da uccidere gli animali in 36-58 ore. Quel medico scrisse: “Forse nessun altro tossico professionale può colpire così diffusamente, insidiosamente ed insieme acutamente, le maestranze come il piombo tetraetile”.
Le tragiche conseguenze del “pt” fra gli operai sono state ricostruite mezzo secolo dopo, dalla sociologa Odilia Zotta e dal lungometraggio “Sloi la fabbrica dei veleni” di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi, presentato in un cinema Modena stracolmo di gente che poco o nulla sapeva della Sloi e al Film Festival del 2009. La peculiarità di quel lavoro sta nelle testimonianze dei sopravvissuti e la forza delle immagini permette a quanti all’epoca dei fatti non erano ancora nati o vivevano altrove, di comprendere non solo la storia, ma anche l’impatto sociale ed emotivo che gli eventi narrati hanno avuto e hanno tutt’oggi sulla popolazione locale.
Impatto enorme che ha creato quella “bomba ecologica “ innescata e sepolta nella profondità dei terreni di Trento Nord perché alla Sloi non c’erano speciali “pattumiere” per gli scarti della lavorazione semplicemente lasciati lì, sul terreno o portati in giro per Campotrentino o fatti ruscellare nel rio detto degli Armanelli che sfociava nell’Adigetto.
Chi ha i capelli molto bianchi ricordava quel corso d’acqua scorrere lento, ma non maestoso, in piazza Dante dove oggi c’è il laghetto delle paperelle, in una fossa assai profonda, con quelle acque di colore verde marcio e la puzza di gomma bruciata e di cipolle arrostite male. Sbucava davanti al Grand Hotel Trento; scompariva in un’altra galleria quasi sotto l’attuale stazione delle autocorriere, ma a quel tempo c’erano ancora le macerie dell’edificio semidistrutto della Gil, la gioventù italiana del Littorio che, richiamando il tempo del fascismo, ci ricordava che quell’acqua sporca, maleodorante proveniva dalla Sloi voluta dal fascio a Campotrentino nel 1939.
Negli anni precedenti le acque dell’ Adigetto là dove sfociavano nella zona da poco discosta dall’attuale stazione della funivia per Sardagna, erano le preferite dalle lavandaie che si alteravano fra via Roggia Grande e quel tratto di rio che ora si intravede appena in via Grazioli a fianco dell’edificio delle Canossiane. Di quelle lavandaie, dei loro panni stesi a sventolare nel sole, ci restano una decina di fotografie; dell’ Adigetto negli anni successivi al 1939, conosciamo l’ inquinamento che ha intriso il letto del rio degli Armanelli e quello dell’Adigetto fino a dove sfocia nell’Adige.
Ancora oggi, i fanghi della Sloi impregnati di veleni sono depositati nel vecchio letto del fiume Adige, un un lungo tunnel sottovia Torre Verde e fino a Torre Vanga. Dove oggi scorre il traffico, e sotto ai semafori, c’è una «bomba» ecologica intatta ed innescata.
Più volte si è tentato, però sempre alla buona, di ripulire persino con un “ragno meccanico” che procedendo nel letto del corso d’acqua pescava la fanghiglia deponendola sulle rive, ma da via Maccani alla foce al ponte di Ravina, la fanghiglia è sempre lì, intrisa di micidiali veleni.
Sono stati molti i progetti ipotizzati per ripulire quelle acque. Ma sono passati 44 anni dalla chiusura dello stabilimento. E i veleni ci sono tutti. A tonnellate.
LA PUNTATA PRECEDENTE Cos'era la Sloi, la "fabbrica della morte"