La tregua di Natale ferma, per un attimo, la follia della Grande Guerra
Era il dicembre del 1914 e la guerra, che poi sarà chiamata Grande, era già una terribile strage sul fronte occidentale e in Serbia e in Galizia dove contro serbi e russi combattevano, soffrivano e morivano migliaia di Trentini.
Alcide Degasperi deputato al Parlamento austriaco e direttore del giornale “Il Trentino”, aveva capito, forse prima di altri, l’enormità di quel conflitto e decise, forse in accordo col Principe Vescovo di Trento Celestino Endrici, di andare a Roma, in Vaticano, dal Papa - era Benedetto XV - per indurlo a chiedere ai “potenti della Terra” una tregua almeno nel giorno di Natale.
Un secolo fa non era facile incontrare il Pontefice; Degasperi ci riuscì e lo convinse a scrivere, addirittura in parte la dettò, quella famosa lettera che invitava alla pace e tornato a Trento raccontò sulle pagine del quotidiano che dirigeva quell’eccezionale momento e l’atmosfera di tristezza e paura che incombeva nella capitale d’Italia ancora neutrale, ma scossa da vocianti e violente manifestazione di interventisti.
Da Nicola II lo “Zar di tutte le Russie” a Francesco Giuseppe, da Guglielmo di Germania al re del Belgio, al Presidente della repubblica francese al re dei serbi al governo inglese accolsero la supplica del Pontefice. Gli uomini dei governi si erano accorti che la guerra uccideva un numero enorme di uomini, soprattutto la distruzione dei materiali era gigantesca e una tregua poteva sfociare nella pace.
Accettarono l’offerta del Papa ma vennero convinti dei generali ad impegnarsi solo a parole: gli strateghi dei vari eserciti avevano messo a punto i piani dell’offensiva finale, ovviamente garantendola vittoriosa, che a primavera avrebbe distrutto il nemico e messo fine, con l’immancabile vittoria, al conflitto. Si avvicina il Natale e la guerra che, scatenata il 30 luglio doveva durare poche settimane giusto il tempo per invadere, debellandola la scismatica Serbia, è una strage smisurata soprattutto in Galizia dove contro i russi combattono i trentini.
Alcide Degasperi sul suo giornale scrive che “ci si trova di fronte ad un turbine di follia e di odio, un flagellum iracundiae come Benedetto XV ha definito con una parola scultorea, la presente guerra”. In quei giorni di profonda tristezza, da paura, di cibo sempre più scarso, i trentini lessero con sorpresa una breve notizia telegrafata da Roma da Alcide Degasperi e pubblicata nella cronaca cittadina de “Il Trentino”. “Il Santo Padre ha ricevuto in udienza privata l’onorevole Degasperi. Sua Santità interessandosi paternamente alle nostre condizioni, impartisce con effusione la benedizione alle famiglie, alle vedove e agli orfani dei nostri morti i guerra, ai feriti, ai prigionieri ed a quanti soffrono più direttamente le condizioni della guerra. Benedice anche il nostro giornale” e salvo errori, quello era il primo quotidiano, e per giunta un giornale austriaco, benedetto dal Papa. In quell’articolo si legge “Accogliamo reverenti quest’ atto di paterna sollecitudine che il capo della Cristianità compie verso di noi in quest’ ora solenne e stringiamoci con raddoppiato fervore alla Sede di Pietro dalla quale irradia, anche fra il cozzare dell’armi, tanto raggio di pace. In particolare ai parenti dei Caduti giunge con la benedizione del Sommo Pontefice, il nostro compianto”.
Notizia breve per un avvenimento per quell’epoca davvero straordinario anche perché il giorno prima che Degasperi fosse ricevuto in Vaticano “L’Osservatore Romano” aveva pubblicato una nota nella quale si dichiarava necessaria la neutralità dell’Italia e si ammonivano i cattolici italiani a bandire quei giornali che facevano propaganda all’intervento. E nel comunicato sull’udienza concessa, c’ è un preciso richiamo politico: appunto la benedizione del giornale che aveva seguito fin dall’inizio del conflitto un indirizzo pacifista e neutralista mentre su tutta la stampa italiana cominciava a risuonar l’inno trionfalistico e risorgimentale della chiamata alle armi. Tornato a Trento, Degasperi da buon cronista aveva scritto con il titolo “Una sosta a Roma” alcune riflessioni su quello storico incontro.
“L’Urbe era quasi deserta. Pochissimi i forestieri che vagano come ombre pensose fra le volte arcane del Palatino. Alla fine del 1914 l’umanità non sente più il linguaggio dei secoli e non scruta i segreti della sua storia millenaria. Il piccone dell’archeologo si è arrestato perché adesso tutta l’Europa è un’immensa rovina. Altri palazzi crollano, altri templi, altre basiliche cadono nella polvere”. Attento alla censura del militare che cominciava a diventare ferrea, Degasperi accenna “all’Europa che crolla come le glorie dell’antica Roma con il tetro spettacolo che ci offre il mondo in quest’ ora d’orrore”.
Il giornalista arrivato dal Trentino già ghermito dalla guerra, dalla fame, dallo sgomenti in una Roma pronta a precipitarsi nella strage, parla “di immenso sconforto. Noi finiremo per disperare della nostra generazione, delle sorti dell’umanità e del nostro popolo. Ci sentiamo perduti oggi nel tetro labirinto dell’umanità sconvolta e travolta dall’odio. Ma per fortuna dei popoli, discesi dal Campidoglio, noi possiamo andare al Vaticano”. Con semplicità di linguaggio e con abilità diplomatica, sottolinea quello spunto che poteva fermare la grande strage e racconta quell’incontro in Vaticano. “E senza incarico, senza autorizzazione, ma anche senza presunzione alcuna e per una colleganza spontanea e naturale colle fibre più intime del nostro popolo, io mi sono sentito interprete di tutte le nostre anime, specie di quelle che soffrono più crudelmente e l’ho detto al Vicario di Cristo, al Padre comune, a chi rappresenta nella sede apostolica il Principe della Pace”.
Ecco l’articolo che poteva segnare una svolta nella storia dell’Europa, raccontare le molte parole di conforto che gli disse il Papa, ripetere quanto Benedetto XV aveva già esternato attorno alla guerra nelle sue lettere e nelle sue encicliche, lo sforzo della diplomazia vaticana trasmesso in quelle sedi dei governi dove era andata smarrita la ragione. Appunto Degasperi dopo aver suggerito al Pontefice di preparare il messaggio di pace descrive Benedetto XV mentre si accinge a scrivere quella supplica subito trasmessa alle cancellerie degli stati travolti dalla guerra, quella nota che li invitava a sedersi al tavolo della tregua.
E sul giornale si legge: “La figura del Papa esile e bianca sullo sfondo damascato della sua biblioteca si agita nervosamente sotto il tormento di un desiderio vivissimo e si curva sporgendo innanzi il viso attento quasi a scrutare nelle tenebre d’Europa lo spazio aperto che gli permette di levar alta la fiaccola trionfatrice della pace”. Quelle frasi scritte da Degasperi erano un invito a continuare sul tema pacifista e a seguire Benedetto XV, profeta inerme fra le grandi potenze in armi, l’uomo che definirà la guerra “inutile strage, flagello dell’ira di Dio, suicidio dell’Europa civile, fatta ospedale o ossario”.
Il Papa stava cominciando la sua campagna diplomatica nel nome della pace e per tenere il Regno d’Italia fuori dal conflitto. Per quell’impegno, Benedetto verrà chiamato dagli interventisti italiani più fanatici, “Papa Maledetto” e i vertici del Regio Esercito cercheranno di nascondere al popolo che non voleva la guerra quei messaggi pacifisti inutilmente trasmessi dal Vaticano a tutte le capitali d’Europa. L’ austriaco Degasperi fu uno dei pochi a comprendere il valore di quei messaggi e sul suo giornale scrive: “Benedetto XV è certamente il Papa che la Provvidenza ha messo a cavallo di due epoche. E quando lascerete Roma non vi sentirete più soli. Altre terre, altri templi potranno crollare, altri fari estinguersi per la violenza della bufera. Ma lassù in alto sfolgorerà ancora sul mondo umiliato, il faro del Vaticano. Fortunati noi se la nostra generazione potrà ancora assistere al rinnovarsi di codesta vecchia Europa e al rifiorire di nuova vita sulle rovine”.
I trentini sentirono parlare della tregua di Natale il 18 dicembre con il lunghissimo articolo intitolato “La parola dell’amore”. L’articolo non venne toccato dalla censura; a Vienna e anche a Berlino si era capito che la guerra era ben diversa da quelle combattute fino a quel momento. Più lunga, più sanguinosa soprattutto enormemente costosa per la distruzione dei materiali, dai cannoni alle navi da guerra, dai dirigibili alle mitragliatrici. Certo la “carne da cannone” sembrava inesauribile, ma le scorte si esaurivano in fretta ed era difficilissimo rimpiazzarle.
Si era pensato di finirla prima del Natale; ci si era accorti che poteva durare anni. Le forbici della censura non toccherano neppure il racconto pubblicato su “Il Trentino”di quella tregua che nel giorno della natività era stata concordata su un tratto del fronte delle Fiandre fra un reggimento della Vestfalia e uno di fanteria di marina inglese.
Nella notte della vigilia dall’una e dall’altra trincea si era gridato di non sparare e il cielo era stato solcato da razzi illuminanti “che cadendo appesi ai paracadute sembravano tante stelle di Betlemme. I soldati tedeschi si erano procurati alcuni piccoli abeti e li avevano ornati con candele poi li avevano issati sui parapetti delle trincee mentre centinaia di uomini intonavano gli antichi canti del Natale tedesco. Un canto lieve e melanconico che pare salire verso il cielo.
Gli inglesi rispondono con un Merry Christmas e un soldato inglese viene fuori dalla trincea disarmato e con le mani in alto. Anche un fante germanico si leva in piedi. Anche lui è disarmato”.
E’ la tregua di Natale, è il giornale della Trento austriaca che riportala la lettera pubblicata su un quotidiano di Londra. La censura non tocca una riga, in Austria e in Germania si conosceva l’appello del Pontefice. Più a Vienna che a Berlino si sperava in una tregua che poteva divenire pace. La voce del Papa era forte, i vertici politici avevano capito l’immensità del disastro, la tragedia delle carneficine, ma i generali rassicurarono. Dicevano di avere i piani per la battaglia di primavera, quella della vittoria finale. E così prevalse la guerra.
A ricordare quella spavento tragedia resta, come vuole la leggenda, un canto diffuso fra i giovani soldati arrivati dal Trentino sui Monti Scarpazi che più di ogni altro rievoca la tragedia di quella guerra. Quando viene cantato par di udire il sibilare del vento e in quel “miserere” tragico, profondo, che sembra perdersi nel gelo di quelle montagne così lontane, così maledette c’è tutta la tragedia di ogni guerra. Le parole in dialetto, quello “Scarpazi” che è la storpiatura di Carpazi, fanno esplodere l’Heimat, l’anima trentino-tirolese e il canto diventa sublime inno pacifista, ma anche struggente canzone d’amore e accorata preghiera. Che sarebbe bello risentire per accompagnare i messaggi di Papa Francesco, appello identico a quello di oltre un secolo fa mentre una nuova guerra a Est dell’Europa continua minacciare l’umanità.