La tragedia del Vajont, 60 anni dopo: una strage annunciata
Era una notte mite, di luna piena, quella del 9 ottobre del 1963, a Longarone, ai piedi dell’enorme, nuovissima diga del Vajont, quando alle 22.39 con un rumore che i sopravvissuti ricordano come tremendo, 270 milioni di metri cubi di roccia scivolarono, alla velocità di 110 chilometri nel bacino artificiale che s’andava riempendo
LA STRAGE Le foto del disastro
TRENTO. Era una notte mite, di luna piena, quella del 9 ottobre del 1963, a Longarone, ai piedi dell’enorme, nuovissima diga del Vajont, quando alle 22.39 con un rumore che i sopravvissuti ricordano come tremendo, 270 milioni di metri cubi di roccia - un volume doppio rispetto a quello dell'acqua contenuta nell'invaso - scivolarono, alla velocità di 110 chilometri nel bacino artificiale che s’andava riempendo.
Una massa di milioni di metri cubi d'acqua scatenò un'ondata che superò di 250 metri il coronamento della diga alta 262 metri, all’epoca l’ottava fra le dighe più grandi al mondo e ancora considerata un capolavoro di ingegneria che sbarrava la grande gola del torrente Vajont, perché rimase intatta pur avendo sopportato una forza 20 volte superiore a quella per cui era stata progettata.
L’ondata si riversò nella valle del Piave distruggendo gran parte dell’abitato di Longarone; risalì il versante opposto cancellando i paesi di Erto e Casso. Morirono in 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 in altre località.
La notizia arrivò attorno alla mezzanotte, incerta, confusa, nella redazione di Trento del giornale “Alto Adige” e de “L’Adige”. Sembrava un attentato dinamitardo, perché era l’epoca della guerra dei tralicci nel Sudtirolo. Partirono a bordo di una Fiat 500 due cronisti, Piero Agostini e Elio Conighi, e due fotoreporter, Giorgio Rossi e Giorgio Salomon, e all’alba, di fronte a quella spianata di ghiaia, a quell’odore di acqua sospesa, ai binari della ferrovia assurdamente arricciati, a quella diga superba e intatta, scavalcata da un’ondata gigantesca, ai resti del borgo di Longarone, si comprese la dimensione di un dramma spaventoso che, subito, si tentò di far passare come imprevedibile fatalità.
Certo, fango, qualche grido d’orrore e ancora silenzio, corpi smembrati, nudi, i primi militari che saltavano dagli autocarri e correvano in quella solitudine bagnata che il sole nascente cominciava ad illuminare. Ma il giornalista Piero Agostini dell’“Alto Adige” intervistò due donne che lavorando nella centrale dei telefoni, avevano ascoltato nei giorni precedenti alla sciagura, animate e allarmate telefonate. Man mano che l’acqua del torrente Vajont affluente del Piave cresceva alle spalle dalla diga, il Monte Toc - chiarezza di un nome perché Toc significa pezzo, blocco - il crollo prevedibile e previsto di blocchi di roccia nelle acque del bacino artificiale creato dall’enorme diga, hanno scatenato un’ondata che cancellò i paesi di Longarone, Erto e Casso.
Anche a Stava, sopra Tesero in Val di Fiemme dove sono cresciute le dighe di terra, in località chiamata Pozzole che vuol dire pozzanghere e innalzate per 50 metri in luoghi ricchi d’acqua, per giunta senza uno straccio di progetto, non può essere contrabbandato come fatto imprevedibile. Agostini denunciò gli allarmi inascoltati compreso quello del pomeriggio precedente il disastro quando, di fronte ai movimenti sempre più evidenti del Monte Toc, si chiese lo sgombero del paese. Proposta inascoltata. Ovviamente. Si sapeva che il Monte Toc era fragile. Boscaioli, falciatori, cacciatori, contadini, operai - la gente della Longarone degli anni Cinquanta - sapevano di spacchi, di rocce in movimento, sentieri che si spostavano, larici e abeti inclinati, di frane, di massi rotolati a valle dopo ogni pioggia, giù nel letto brullo del torrente.
Toc vuol dire pezzo: pezzo di pane, di formaggio, di roccia. Si sapeva che la montagna andava in pezzi e le frane creavano violente ondate nel lago che s’andava riempendo trattenuto dalla possente diga. Anni di suppliche, di lettere, di rabbia, di proteste, di appelli disperati, inutili come gli articoli su “l’Unità” di Tina Merlin processata per procurato allarme solo per aver scritto che un lago artificiale, quindi innaturale, avrebbe compromesso la stabilità della montagna. Il crollo prevedibile e previsto di blocchi di roccia dal Monte Toc nelle acque del bacino artificiale creato dall’enorme diga, hanno scatenato un’ondata che cancellò i paesi di Longarone, Erto e Casso.
Siamo sulla soglia dei sessanta anni, il Vajont è un ricordo lontano, ma ancora terribile anche per quella via della giustizia disseminata d’ostacoli denunciati nel trapassato remoto dall’avvocato Sandro Canestrini del Foro di Rovereto che affrontò la vergogna del Vajont nel nome delle vittime.
Per esempio Giovanni Leone, Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca, si precipitò a Longarone garantendo ai superstiti la presenza dello Stato. Ricordava Bruno Ambrosi, giornalista della Rai: “Ad aspettarlo con me c'era il vice sindaco di Longarone, Terenzio Arduini che nella valanga d’acqua aveva perso il figlio e i genitori. Gli andò incontro e, disperato gli disse: Presidente, chiediamo giustizia. Leone rispose, dopo avergli preso con sincero calore la mano: E giustizia avrete".
Ma poco dopo cadde il Governo e Leone, famoso avvocato, divenne capo del collegio degli avvocati della Sade-Enel, la controparte. Si racconta, ma forse è una leggenda, che Leone sorvolò a bordo di un elicottero militare le zone del disastro. Ma per scaramanzia, negò il posto al passeggero numero 17. Il processo si conclude con l'assoluzione di cinque imputati e di tre condanne al minimo della pena. Da ricordare che difendendo i responsabili del disastro, sostenne la tesi sulla imprevedibilità della catastrofe. Dal canto suo, lo Stato, nel tentativo di scoraggiare i superstiti che chiedevano giustizia, ipotizzando possibili disordini, aveva spostato il processo addirittura a L’Aquila con la Corte di Cassazione a scrivere che “il dolore dei superstiti avrebbe potuto turbare l’ordine processuale a Belluno”, aggiungendo “che le popolazioni sono tormentate dalla convinzione dell’origine non naturale dell’evento” e pertanto, tale convinzione potrebbe influenzare i giudici naturali, cioè quelli del Tribunale di Belluno, contro gli imputati.
In verità su molti superstiti si esercitò una costrizione morale, determinandoli ad accettare, anche contro coscienza, la transazione, per certi aspetti umiliante, offerta dall’Enel, la madrina della diga e del grande bacino idroelettrico. Con dieci miliardi di lire dell'Enel per i risarcimenti, tenta un accordo perché la questione passi da penale a civile, ma Mari Fabbri, il giudice istruttore del tribunale di Belluno evita il compromesso. Nei confronti dei superstiti, costituitisi parte civile e ai quali, in precedenza, aveva promesso giustizia, in veste di presidente del Consiglio, Leone che poi diventerà Presidente della Repubblica ai tempi della strage di via Fani e dell’assassinio di Aldo Moro finito nelle mani delle Br, riesce a far accogliere dal tribunale la tesi della “commorienza” che fa risparmiare all'Enel miliardi di lire. Insomma la catastrofe fu attribuita a cause naturali e alla volontà di Dio visto che il periodico “La Discussione” lo indicò "un misterioso atto di amore”. Commorienza è un capitolo giuridico che dovrebbe risolvere problemi di incertezza nell'acquisto di diritti derivanti da successione a causa di morte di più persone aventi tra loro legami di parentela.
La “commorienza” scatta quando la morte dei soggetti avviene per effetto di un unico incidente o infortunio senza che sia possibile individuare con certezza il preciso momento del decesso di ciascuna di esse. Insomma, un cavillo di spessore. Mentre la stampa straniera dava largo spazio all'inchiesta condotta da Tina Merlin la giornalista corrispondente da Belluno de “l’Unità” all’epoca il prestigioso quotidiano del Partito Comunista che aveva dato voce a quanti indicavano i pericoli delle frane sulle pendici del monte Toc - cioè i citati smottamenti, i sentieri che si incurvavano, gli alberi che si inclinavano - in Italia si mobilitarono le prestigiose firme del giornalismo dell’epoca: Indro Montanelli, Giampaolo Pansa, Egisto Corradi, Alberto Cavallari, Giorgio Bocca, Dino Buzzati quello che scrisse “Il deserto dei Tartari”.
Due anni prima del disastro, Tina Merlin anticipò quello che sarebbe potuto succedere nella valle, con un articolo pubblicato su “l'Unità” del 21 febbraio 1961, in cui la giornalista denunciava la possibilità che una frana cadesse nel lago provocando enormi danni. La stessa Merlin incoraggiò una campagna di informazione contro la diga per tutta la durata dei lavori di costruzione, consultando gli abitanti della valle al di sotto del monte Toc. Inascoltata dalle istituzioni, la giornalista fu addirittura denunciata per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico" tramite i suoi articoli, processata e assolta dal Tribunale di Milano.
In particolare Buzzati e Montanelli furono fra i più autorevoli portavoce sulle cause della tragedia, affermando il carattere di catastrofe naturale, tacciando di "sciacallaggio" l'attività di alcuni giornalisti italiani, tra i quali la Merlin, accusandola di speculazione politica per i suoi scritti. Quelli erano gli anni cruciali della “Guerra Fredda” che poteva diventare a Berlino, quindi nel cuore dell’Europa, la terza guerra mondiale che ancora incombe e non c’è da meravigliarsi se molti giornali dell’epoca erano apertamente, e qualche volta grossolanamente, schierati contro il Pci di Palmiro Toglietti, lo statista che elaborò la teoria della "via italiana al socialismo, cioè la realizzazione del progetto comunista tramite la democrazia, ripudiando l'uso della violenza dalla quale, nell’Unione Sovietica di Stalin era sfuggito.
Ecco, forse, spiegata la frase di Montanelli sulla “ignobile, vile, disgustosa, canagliesca speculazione politica del Pci sui cadaveri”. Non cita mai la Merlin: è certo che in quell’epoca, quella del giornalismo era una professione che parlava poco al femminile. Anche Buzzati, il “Bàrnabo delle montagne”, proprio di quelle montagne, aveva scritto che “un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il asso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non poteva difendersi”. Aggiungendo che “il bicchiere era fatto a regola d’arte” facendo così intendere che la sciagura aveva un solo colpevole: il destino.
Certo, oggi la Tina Merlin è - come deve essere ricordata e la sua memoria tramandata nel segno della più elevata dignità - “l’agguerrita cronista” (Corriere della Sera, sabato 30 settembre 2023, pagina 43 nda), la donna che “predisse ma inascoltata”, “la scalpitante Tina era una giornalista bravissima, lo sapevano tutti i colleghi”, però in quell’epoca la cronista con un passato di partigiana non venne mai citata e - lo ripeto - nel 1959 il conte Vittorio Cini l’ultimo presidente della SADE “fece denunciare la giornalista dai carabinieri di Erto per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico tramite i suoi articoli”.
Venne processata e il 30 novembre 1960 assolta dal giudice Angelo Salvini del tribunale di Milano con la formula perché il fatto non costituisce reato. Pe fortuna c’è un giudice anche a Milano. Eppure sessanta anni fa, quello che era successo era una disgrazia naturale per la quale l'uomo non aveva alcuna responsabilità. I superstiti che reclamavano giustizia, erano fomentati da “sciacalli comunisti” che speculavano sul dolore e sui morti. Chi accusava la Sade-Enel, chi faceva nomi e cognomi, era da “additare al pubblico disprezzo”. C'era solo una lezione da imparare da quella notte. Il settimanale della Dc, La Discussione, lo scrisse chiaro: “Perché sono morti? Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un misterioso disegno d'amore”.
Come dire: quello che è successo è stato volontà di Dio. O laicamente: è stata una fatalità, una cosa della natura che può essere molto crudele o come scrisse Giorgio Bocca, altro nome di spessore nella storia del giornalismo italiano: “In tempi atomici come questi, si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura che non è né buona né cattiva, ma indifferente”. Quaranta giorni dopo il periodico della parrocchia di Longarone e nella rubrica “Diario del primo mese” pubblicò la lettera di un uomo: “Non mi resta più nessuno, Signore. Ho riconosciuto soltanto mia figlia,13 anni, il volto bello, quasi intatto. Ho trovato un quaderno di scuola di Bruno e una lettera che avevo scritto a Carla quando eravamo fidanzati. Intanto possiedo il vestito che indosso. Mi aggiro fra le macerie delle case altrui e do una mano ai soldati, li sento quasi fratelli, taciturni, instancabili. Non mi fanno discorsi eloquenti, non hanno pronte le parole di incoraggiamento. Gli altri li detesto. Si vede che non hanno patito. Mandali, o Signore, a raccogliere cadaveri, forse mi riporterebbero mia moglie e mio figlio. Ma non allarghiamo le nostre ferite con le parole cattive, con le loro facce di circostanza. Ho bisogno di pensare ai miei morti, non ci insegnino ad odiare. Vadano a dare una mano e rispettino i nostri morti. So che molti inviano aiuti, che siamo pensati come fratelli. Ne abbiamo tanto bisogno perché non sappiamo da che parte cominciare”.
Fu il giudice istruttore Mario Fabbri a Belluno il 20 febbraio del 1968, a rinviare a giudizio i responsabili dell’Enel-Sade, la Società Adriatica di Elettricità portando in tribunale quanti aveva ritenuto colpevoli del disastro di frana, “di oltre 250 milioni di metri cubi di roccia precipitati nel lago della sponda sinistra dell’impianto idroelettrico del Vajont”. Una colpa regina: “Aver omesso di effettuare studi e controlli idonei all’accertamento della reale natura del terreno… aver effettuato invasi a livelli sempre più elevati e perciò sempre più pericolosi per la stabilità della sponda”, senza adeguati studi e accertamenti. Nell’Italia chiamata “terra ballerina” per via di terremoti, alluvioni, frane, l’Enel il colosso dell’epoca, marciò con gli occhi bendati verso la più grande catastrofe industriale del secolo passato. In quell’epoca, si cominciava timidamente a parlare dell’impiego del nucleare per scopi civili, per avere l’elettricità. Del processo a L’Aquila “non rimaneva che l’ombra vana” di quel disastro; i giornali ritirarono gli inviati speciali con la giustificazione che il processo, si era già nell’autunno del 1969, non faceva più notizia e sulle strade di quella città e nel palazzo di giustizia, si vide l’esodo dal Veneto all’Abruzzo “di un popolo decimato, senza casa e senza terra” come scrisse Canestrini nel suo libro “Vajont, genocidio di poveri”.
Ma il nucleare, quello più moderno, sì intende, è davvero senza rischi? Sul Lago di Garda, a Castelletto di Brenzone, nel lindo e silente cimitero delle suore, delle Piccole Suore della Sacra Famiglia, che s’affaccia sul Benaco, quattro tombe ricordano quattro sorelle maestra d’asilo a Longarone uccise in quel tremendo mercoledì di 60 anni fa, chissà, forse mentre pregavano. Di certo morirono assieme a molti bambini del loro asilo.
Ecco i loro nomi: Gianluigia Caldonazzi di Romagnano, Madre superiora, maestra d’asilo, aveva 47 anni, era suora da 26; Liantonia Valle di Fontanaviva (Padova) assistente d’asilo, 34 anni, 18 di religione; Lucina Vincenzi di San Zenone di Minerbe (Verona), cuoca, 29 anni, 10 di religione e la più giovane, Arcangela Soster, maestra d’asilo di Creazzo. Vicenza, 24 anni, da 8 suora. I corpi di Arcangela e Lucina furono trovati nel Piave l’11 ottobre e nello stesso giorno nelle macerie di Longarone venne trovato quello di Gianluigia mentre quello di Liantonia, il 18 ottobre nel Piave, a Lentisi di Feltre. Il periodico Nazareth “Longarone e il nostro pianto” struggente racconto, l’immagine dell’asilo, delle suore fra i bimbi, con il diario del primo mese i ricordi di un pase scomparso. “Se cade qualche cima resteremo schiacciati” aveva scritto suor Arcangela al familiari e, francamente, nonostante gli anni trascorsi, entrando in quel luogo di ricordi, si prova commozione colme la provò Fabio Storelli, romano, uomo della Rai, soprattutto uomo di grande cultura quando lo portai fra quelle croci.
A Longarone, il cimitero ospitava le salme di 1.464 vittime del disastro, di cui solo 700 con il nome. Il cimitero è stato completamente ristrutturato nel 2003, con la discussa rimozione delle lapidi originarie. Attualmente presenta 1.910 cippi bianchi con tutti i nomi delle vittime della tragedia, a prescindere o meno dall'effettivo ritrovamento e della giusta corrispondenza nome. E’ sabato 26 luglio 2000, l’estate è al culmine, gli italiani sono in vacanza e forse in pochi, leggendo il “Corriere della Sera”, si soffermano sull’articolo di fondo. Il titolo è “Vajont, vergogna con finale solenne” e la firma è la più solenne del giornalismo italiano: quella di Enzo Biagi. “Dopo quasi 37 anni si è chiusa, con una cerimonia solenne a Palazzo Chigi, la pratica Vajont: le famiglie delle 2000 vittime della frana hanno ricevuto un risarcimento. Solenne”. Continua Biagi: “Solenne sta per grandioso, magnifico, splendido, e anche straordinario, mentre - ripeto 37 anni di processi e di varie interpretazioni, unica certezza i 2000 morti - la descrizione più propria del fatto sarebbe: senza alcun rito è stato burocraticamente archiviato, il fascicolo Vajont in attesa da qualche decennio”.