Mamme d'Africa una sfida per la vita

di Paolo Ghezzi

Vai in Africa Celestino, cantava il principe De Gregori. E il suo amico, il compagno Veltroni, aveva minacciato: smessa la grisaglia del politico, in Africa vado.
L'Africa è sempre la nostra cattiva coscienza, una spina nel fianco, qualche volta un alibi.
Chi ci va davvero, a lavorare sulla frontiera della sanità che laggiù è una perenne emergenza, sa che il mal d'Africa è romantico ma i mali d'Africa endemici, cattivi. Disperanti. Punte del 50% nella mortalità infantile. Assistenza sanitaria inesistente in aree sconfinate. Donne lasciate sole a partorire che troppe volte ci lasciano la vita.

Fabio Boccardi, 56 anni, specialista anestesista dell'ospedale di Trento, è appena tornato dalla sua decima Africa in trent'anni. Con i colleghi del Cuamm, coraggiosa organizzazione di dottori generosi, ha fatto partire un progetto importante (la Fondazione Eni come finanziatore principale) per il «rafforzamento del sistema sanitario del distretto di Palma, in Mozambico, con apertura del blocco operatorio, necessario soprattutto per la salute materno-infantile, con l'inizio della pratica dei tagli cesarei e un'azione rivolta alle donne (e soprattutto ai loro mariti) di convincimento e incentivazione affinché vadano a partorire in un ambiente protetto».


La morte di parto è ancora diffusa?
«Sì, 520 donne muoiono partorendo ogni 100mila nati vivi. Ma i numeri delle statistiche non dicono che cosa significa davvero, "morire di parto": la donna muore in due-tre giorni di agonia, con il bambino nella pancia, soffrendo in maniera atroce e orribile: la prima cosa che provi, tu occidentale, è una grande vergogna...E non parliamo del 50% dei bambini che muoiono prima dei 5 anni di vita».
Il vostro intervento servirà a dare una svolta, in quell'area agricola?
«La svolta avviene solo se ci saranno operatori sanitari locali pronti per portare avanti il progetto. È per questo che il primo impegno di noi medici italiani dev'essere la formazione dei colleghi africani».
Non dev'essere un compito facile.
«Si partiva da zero, non c'era mai stata una sala operatoria in quel distretto, ma le premesse sociali sono buone: il 95% della popolazione è musulmana, il 5% sono cristiani ma la convivenza è assolutamente pacifica e normale, sia tra la gente sia tra il personale sanitario. 5 etnie e 5 lingue diverse, tutti vivono serenamente fianco a fianco: in questo periodo così difficile per il mondo, è bello constatarlo».
Nessun problema neppure per un medico occidentale uomo con le pazienti islamiche?
«No, da noi in Mozambico non c'è mai stato problema. Forse anche perché in quella zona si professa un islam moderato: le musulmane sono pazienti come tutte le altre. Certo, vengono a partorire in ospedale solo se il marito dà il suo consenso, ma in Africa quasi sempre è così».
Risultati del vostro lavoro?
«La mortalità materno-infantile è così diffusa, che ci vorranno anni prima di aprire una nuova èra. In un anno noi possiamo solo gettare un seme, vediamo poi che cosa succede...».
Intanto è stato fatto un passo avanti.
«Sì, ed è importante la collaborazione di tanti. Vorrei citare in particolare il dottor Alberto Brolese , primario di chirurgia. Quando dal Mozambico ho lanciato un appello per poter sostituire con urgenza un collega che era rientrato in Italia, l'unico che ha risposto è stato lui. Ci ha messo in contatto con una chirurga neospecializzata che è arrivata a darci una mano preziosa. Ecco, Brolese ha fatto un piccolo gesto, una telefonata di dieci minuti: ma ha messo in moto un aiuto dal valore immenso».
Una volta era più facile trovare medici pronti a volare in Africa?
«È cambiato tutto: trent'anni fa, quando per la prima volta sono andato in servizio civile, partire per l'Africa era una cosa normale. Mi ricordo che erano state presentate 2.500 domande e siamo partiti in 40. Adesso non risponde più nessuno, la pressione per partecipare ai concorsi in Italia è fortissima. E poi la stessa Azienda sanitaria non è felice: c'è un prezzo da pagare, la mia aspettativa è stata senza sostituzione, c'è una piccola ricaduta della tua scelta sul reparto, non si diventa popolari tra i colleghi. E poi devi pagare un prezzo anche tu che vai: lasci i figli a casa, non sono mai situazioni facili e il livello di pericolo aumenta - noi del Cuamm poi non abbiamo un servizio di sicurezza come Emergency o Médecins Sans Frontières - la mia compagna è riuscita a stare giù soli tre mesi in un solo anno».
Che cosa si impara, Fabio Boccardi, dopo dieci Afriche?
«Che il gap professionale - dettato da spietate leggi economiche, noi ricchi da una parte, loro poverissimi dall'altra - è e resterà enorme, dunque non è un investimento sulla tua carriera. Ma solo andando laggiù capisci davvero quali enormi differenze ci siano, nel mondo, per quanto riguarda la qualità della vita. L'80% di ciò che ho in casa, qui in Trentino, non è necessario: per vivere abbiamo bisogno di poco... Dovremmo davvero svuotare le nostre case di tutto ciò che è voluttuario, che non ci serve davvero».
La cosa più bella che può capitare a un medico in missione in Africa?
«Vedere un bambino che può nascere in un ambiente sicuro, aiutare a vivere una donna e un bambino che altrimenti sarebbero morti».
Lei, che ha aiutato decine di migliaia di parti in Africa, che cosa dice delle furiose polemiche trentine sulla chiusura dei reparti maternità valligiani?
«Noi dobbiamo garantire un parto sicuro alle donne trentine, punto. È un problema tecnico che è diventato politico: sull' Adige via web, dal Mozambico, ho letto interventi dai toni spropositati, mi chiedevo "ma che cosa sta succedendo in Trentino?". Occorrerebbe adesso un passo indietro, sedersi a tavolino e risolvere la questione. Purché non abbiano perso tutti il buonsenso, che invece in Africa è facile ritrovare...».
Torniamo in Africa, allora: la cooperazione medica ha un futuro, nonostante tutto?
«Io spero che, dopo tanti anni di impegno svolto da noi che non siamo più esattamente dei ragazzi, ci siano anche i giovani con le loro energie. Ma invece mancano all'appello, perché la cooperazione non è più sentita come una proposta di primaria importanza: sono tutti così preoccupati di trovare lavoro qui che non possono permettersi distrazioni... Una volta "tenevano" le grandi motivazioni: il discorso politico, quello filantropico, la dimensione religiosa (guadagnarsi il paradiso). Oggi quelle spinte ideali sembrano scomparse, temo che la cooperazione internazionale diventerà un lavoro di nicchia, specialistico-professionale, perdendo il respiro del volontariato».
E che cosa proverebbe a dire a un giovane medico per convincerlo a scoprire la sua Africa?
«Forse gli direi: caro o cara trentenne, la medicina che si fa in Africa non conosce i livelli tecnologici di Trento. Non andrai a imparare il mestiere di medico ma ne impari un altro: e a livello umano guadagnerai invece moltissimo... Molti giovani oggi restano shockati da questa esperienza mentre una volta tutti tornavano contenti... E manca il gusto della sfida sui tempi lunghi: io trent'anni fa ho firmato per trenta mesi il mio primo contratto, ora hanno difficoltà a firmare per tre mesi».
Non c'è più voglia di rischiare?
«Il rischio va calcolato e dev'essere controllabile, l'eroismo non è richiesto. A me avevano proposto di andare a lavorare in un ospedale con l'Ebola e ho detto di no: i rischi sono così elevati che devi mettere in conto di perdere la vita, come è accaduto a qualche nostro collega. Il dottor Piero Berra invece ha accettato, è andato a lavorare in Sierra Leone».
(Va ricordato che nel 2015 c'è stata una significativa presenza di professionisti trentini tra i volontari di Medici con l'Africa Cuamm: oltre a Boccardi e al menzionato Berra, rientrati, sono stati a Chiulo - Angola la biologa Cornelia Giovannella , rientrata, il chirurgo Fabio Battisti , in servizio, l'infermiera Laura Maldini , in missione di valutazione; e a Lundsar - Sierra Leone il chirurgo Mario Battocletti , rientrato).
Ci dà un segno, prenatalizio, di prudente speranza?
«La cauta apertura della Chiesa alla regolazione delle nascite è una rivoluzione, un grande segnale: che senso ha mettere al mondo milioni di bambini se uno su due moriranno nei primi anni di vita?».

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