Una giornata con i profughi a Marco Tra musica e lezioni di italiano
Persone. Nel campo di Marco ci sono molte persone. Forse è bene sottolinearlo subito, perché spesso diventano solo dei numeri per i titoli dei giornali, delle scuse per un tweet o delle provocazioni per una presa di posizione politica. Vengono chiamati profughi o migranti o richiedenti asilo, termini molto differenti tra loro, ma dietro a quei numeri e a quelle definizioni ci sono delle persone. Ognuna con la propria storia, spesso drammatica, e ognuna con i propri sogni e aspettative.
Dopo aver trascorso una mattinata al centro della protezione civile di Marco, a tu per tu con questi ragazzi, la prima parola che viene in mente è tranquillità. Le giornate scorrono lente, tutte molto simili tra loro. Ci sono una serie di appuntamenti più o meno fissi, un ordinato via vai, ma l'impressione è che tutti siano serenamente in attesa di un qualcosa.
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Questo qualcosa è una vita, una vita migliore lontana dal proprio Paese d'origine: prima di iniziarla, se mai la inizieranno, una delle tappe è il passaggio da questa vasta area, nella quale compiere i primi passi verso una nuova cultura e un nuovo stile di vita.
All'interno del campo tutti ti salutano. Un «ciao» o un «buongiorno» non mancano mai quando ci si incrocia lungo l'unica strada: l'educata e non scontata forma d'accoglienza degli accolti per noi visitatori. Ad accompagnarci e a rispondere a domande e curiosità è Andrea, un'operatrice del Punto d'Approdo di Rovereto, che lavora ogni giorno a contatto con queste persone, aiutandole nell'inserimento, mantenendo i rapporti con altre associazioni, organizzando varie attività e gestendo le questioni burocratiche e organizzative. Insieme a lei un'altra decina di persone lavorano all'interno dell'area, con vari ruoli.
LA PHOTOGALLERY (di Gianni Cavagna)
A Marco si opera la prima accoglienza: le persone arrivano qui dopo dei viaggi lunghi e rischiosi e vi trascorrono qualche mese in attesa di carte e permessi, prima di essere trasferiti in case o appartamenti nel territorio provinciale. Non tutte, ovviamente, visto che molte decidono di proseguire il viaggio verso altre nazioni. Durante questo periodo di attesa e di inserimento l'obiettivo principale è la loro formazione, affinché possano arrivare il più preparati possibile al momento del trasferimento.
I corsi si dividono in due macro aree: quelli per la lingua e quelli che potremmo definire di educazione civica. Della prima parleremo qui sotto, mentre per quanto rigurda la seconda, pensateci e provate a immedesimarvi: dal Mali o dal Gambia o dalla Nigeria, dopo un lungo viaggio arrivate a Marco di Rovereto, catapultati in un nuovo mondo.
A questo punto dovete capire come e dove prendere un autobus, come e dove andare a fare un po' di spesa, dove e come porvi nei confronti di chi incontrate. Il confronto tra gli operatori e le persone ospiti a Marco è costante: i primi spiegano le regole del campo, le consuetudini, come lasciare il posto a una donna incinta o a un anziano su un bus, e le leggi. Perché quello che si usa fare o che è permesso di fare in Bangladesh non è detto che lo sia in Italia.
E viceversa, naturalmente. I richiedenti asilo sono liberi di uscire dal campo, magari per andare a Marco a fare un po' di spesa o comprare le sigarette, con i due euro e mezzo al giorno che lo Stato passa loro. Le regole del campo sono poche ma chiare. E quelle all'interno degli alloggi ancora di più. Entriamo nella casa di un gruppo di pakistani e appeso sul muro ci accoglie un cartello: tra le cose da fare sono segnate pulire, cooperare, aiutarsi e fare la differenziata. Le cose da non fare sono litigare, fumare in casa e bere alcolici.
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Regole ovvie e se vogliamo banali, ma quando si vive in dodici (che non si conoscono, che sono lontani da casa, che sono reduci da settimane e mesi non facili) all'interno di una piccola struttura è bene sottolinearle. All'interno dell'abitazione, una di quelle «autonome», ovvero con la piastra e il gas, stanno cucinando il pranzo. Sul tavolo un tagliere con peperoni e peperoncini, sul fuoco del riso e un sugo speziato. Chi taglia, chi mescola e chi getta le immondizie: aiuto e cooperazione, regole recepite.
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Salutiamo e usciamo per dirigerci verso la mensa, distante poche decine di metri, in altri container in cima a una piccola collina. Incrociamo dei ragazzi, che ovviamente salutano, ma a sorprenderci è il loro look: risvoltini ai jeans, cavallo dei pantaloni che definire basso è eufemistico, telefono in mano con cuffiette alle orecchie. Ribadiamo: saranno pure dei numeri, saranno pure profughi, saranno pure oggetto della contesa politica, ma a vederli così sembrano, anzi sono, dei normali ragazzi di vent'anni, che imitano nell'aspetto quello che vedono alla tv, sulle riviste e su Facebook. La differenza fondamentale rispetto ai loro coetanei è la loro storia passata. Tutto qui.
Alla mensa c'è una normale e ordinata coda, per ricevere pollo, riso, pane e joghurt. Sul recinto di fronte sono appese magliette, felpe e pantaloni che si asciugano al sole. Una scena già vista, nei campeggi degli oratori, degli scout, delle società sportive. Andrea ci racconta come per tutti trovare un lavoro sia l'unica priorità. Ma prima hanno bisogno di un periodo che potremmo definire di ambientamento, utile a ricevere le basi per favorire la loro futura coesione sociale sul territorio.
Ci dirigiamo verso la macchina per andarcene. Continuiamo a rispondere ai saluti e continuiamo a notare la grande tranquillità e la serenità di queste persone. Che restano in attesa di una vita migliore. Non quella al campo di Marco, una vita vera, normale.
LA LEZIONE
La prof si chiama Marialuisa. Le «e» aperte tradiscono la sua origine roveretana, sia che parli in italiano sia che parli in inglese, ma le sue caratteristiche sono la pazienza, la disponibilità e il sorriso per tutti i suoi studenti. La sua classe è molto particolare: i tredici presenti alla lezione che va dalle 10 alle 12 provengono da Paesi molto lontani e sono tutti adulti. Però, come alunni provetti, sono attenti, prendono un sacco di appunti sul quaderno e sono reattivi nell'alzare la mano per dare la risposta alla domanda. Anche la materia della lezione è piuttosto particolare: nella prima parte si parla di raccolta differenziata, nella seconda di affitti e appartamenti.
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Entriamo nell'aula, o meglio facciamo irrispettosamente irruzione, nel bel mezzo della parte sulla differenziata. Dal computer la prof proietta sulla lavagna un breve video che spiega cosa bisogna raccogliere e dividere. Nel frattempo scrive le parole chiave, da «umido» a «bidone», che gli alunni copiano diligentemente sul quaderno. «Da voi in Nigeria si divide o si mette tutto insieme?», chiede a due ragazzi. «Tutto insieme, all together», rispondono. «E da voi in Pakistan?», «Tutto insieme prof». Se vorranno vivere in Italia e soprattutto in Trentino dovranno imparare, quindi. E infatti si appuntano tutto.
Dalle immondizie alla casa. La prof spiega l'affitto, come controllare la piantina di un appartamento, come valutare un annuncio immobiliare. E qui scatta il test, un classico vero o falso per verificare la comprensione del testo: le mani alzate sono parecchie e le risposte giuste. Il gruppo è sulla buona strada, quasi pronto per iniziare una vita normale in un Paese nuovo.
L'INTERVISTA
[[{"type":"media","view_mode":"media_large","fid":"950801","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"480","style":"float: right;","width":"420"}}]]Joshua ha un sorriso contagioso e appena lo vedi ispira subito simpatia. Lo interrompiamo mentre sta addobbando la nuova sala-container, nella quale un gruppetto di ragazzi sta suonando le percussioni, in un momento di relax prima di pranzo e dopo i corsi. Ci stringe la mano, ci presentiamo e, tra inglese, italiano e la lingua internazionale degli ampi gesti con le mani e le braccia, inizia a raccontarci.
«Mi chiamo Joshua Ewes e vengo dalla Nigeria. Sono in Italia da circa 6 mesi, un po' a Marco e un po' altrove. Sono arrivato dal mare, partendo dalla Libia, su una barca».
Proviamo a chiedergli quanti erano su quella imbarcazione: la sua espressione e i suoi gesti non lasciano dubbi. «Tanti! More, more ( di più, di più ). Era completamente piena, ma siamo riusciti a raggiungere terra. Per fortuna».
Ci racconta che nel suo Paese ha fatto tanti lavori, dal muratore al cameriere. Gli chiediamo perché è fuggito e qui, per la prima volta, smette di sorridere e abbassa lo sguardo.
«In Nigeria non mi piaceva, avevo dei grossi problemi. Diciamo che c'erano delle persone che non volevano che io rimanessi lì, dei ragazzi cattivi». In inglese o in italiano non riesce a spiegare con esattezza la situazione, ma scrolla la testa e ci fa capire che non si trattava di ragazzate, ma di problemi ben più gravi. A Marco, invece, la vita è più tranquilla, migliore. «Qui mi piace, ho degli amici, il posto è bello e ci aiutano molto».
Gli operatori sono in gamba? «Mamma mia! Bravissimi, sono tutti bravissimi».
E le giornate qui, come trascorrono? Cosa fate? «A me piace suonare e disegnare, poi sono anche un attore. Ho recitato nella rappresentazione teatrale allo Zandonai, nello spettacolo intitolato "Aylan", è stato un bel momento. Comunque qui ci sono i corsi, a partire da quello di italiano che è molto utile».
Sul futuro, dove e cosa, Joshua non tentenna ed è subito chiarissimo: «Voglio stare in Italia e lavorare. A me piace qualsiasi lavoro, ho voglia di impegnarmi e di crearmi una vita qui da voi. Germania o altri Paesi? No, non mi interessano: l'Italia è un posto bellissimo e mi piacerebbe rimanere qui. Per un po' di tempo sarò qui a Marco e imparerò bene l'italiano. Poi inizierà la mia nuova vita».