Moussa e la sua corsa verso la libertà a Trento

Fuggito dalla Libia su un barcone, oggi fa l'assistente domiciliare

di Domenico Sartori

Corre leggero, Moussa, anche se una caviglia gli dà qualche noia, sui campi da calcio e lungo la ciclabile tra Trento e Rovereto. Corre leggero verso la vita, dopo avere incontrato la morte e la paura. Col sorriso largo, aperto sul futuro, continuando a sognare. Come ha sempre fatto, fin da bambino. Moussa Yahiya , trent'anni, è un rifugiato politico che il Trentino ha saputo accogliere. E lui oggi mostra gratitudine. Moussa vive nel capoluogo e ha un lavoro: assiste a domicilio un anziano, malato di Alzheimer.

Ma i suoi occhi guardano lontano: «Voglio accantonare un po' di risorse per poi frequentare un corso Oss (per operatore socio-sanitario, ndr)» dice. Per questo ha dovuto intanto prendersi il diploma di terza media, frequentando la sera le lezioni alle «Don Milani» di Rovereto. L'autonomia, come la libertà, è una conquista, mai data una volta per tutte. Per questo, Moussa continua a correre. Sempre in movimento come il suo popolo: i Tuareg. Lo incontro presso la nuova sede di Atas, l'Associazione trentina accoglienza stranieri, che gli ha fatto strada al momento dell'arrivo in Trentino. Se gli si chiede da dove viene, ti risponde abbassando gli occhi: «Mi tocca il cuore parlarne. Vengo dal Niger, ma sono un Tuareg, senza confini. La mia carta d'identità è libica, ho vissuto più in Libia che in Niger». Che è uno degli ultimi dieci Paesi al mondo per Pil pro capite. Libia, cioè Misurata. «Era la capitale economica» racconta Moussa «io dirigevo una fabbrica di borse, ventiquattro dipendenti». Poi, nel febbraio 2011, d'improvviso, la svolta. Sono i giorni dell'insurrezione per rovesciare Gheddafi.

«Il padrone della fabbrica da un giorno all'altro fuggì. Rimanemmo chiusi nello stabilimento per 42 giorni, con il timore di uscire, osservando i movimenti dei militari dall'oblò della ventola dell'aria». Incertezza. Angoscia. Paura. Poi, la decisione di fuggire. «Siamo usciti con le mani alzate, io davanti a tutti. Abbiamo incontrato un giovane, e ci ha salvato il fatto di avergli parlato in dialetto Tuareg. "Sono nostri fratelli!" ha urlato ad un altro militare». Mesi di tensione estrema. Sballottato da un posto di blocco all'altro. Per riuscire a raggiungere prima Zliten, poi Tripoli, rimediando impieghi di fortuna per sopravvivere. Con l'angoscia, minuto per minuto, di essere perquisito da qualcuno che scoprisse la sua identità Tuareg.

«A Zliten ho passato per la prima volta una notte in prigione, in una stanza col sangue sulle pareti. Avevo fame, ma c'era solo pane ed acqua». In fuga dalla guerra e dai bombardamenti della Nato, trascinata da Francia e Stati Uniti, sulle installazioni militari dell'esercito libico, a supporto dei ribelli. Come sei arrivato a Trento, Moussa? «Dapprima pensavo di fuggire in Egitto o in Tunisia, la più vicina: troppo distante e troppo pericoloso tentare di arrivare in Niger. Al porto di Tripoli c'era un casino di gente che cercava di partire. Ho aiutato a dipingere un peschereccio. Erano i militari, allora, a organizzare le partenze. E un giorno uno mi ha proposto: "Vuoi andare in Italia?" Ho risposto "Sì"». I primi due tentativi andarono a vuoto: «Il primo per un guasto, il secondo perché il capitano era ubriaco. Vidi delle luci, pensavo di essere arrivato. Invece, erano quelle del porto di Tripoli. Poi, il terzo tentativo: «Sul barcone eravamo in 200, io sotto. Tenevo il documento nascosto sulla gamba, attaccato con lo scotch. Tre giorni di mare, a tratti mosso, senza nulla da mangiare, solo una bottiglia d'acqua, e non sapevi dove pisciare».

Moussa sbarca, vivo, a Lampedusa, alla fine dell'agosto 2011. Da lì finisce via mare a Taranto, in una tendopoli. Poi, in pullman, l'arrivo in Trentino. La prima accoglienza a Marco, quindi a Garniga, una paio di mesi a Cadine, infine a Sarche, in alloggi seguiti da Atas. «A Sarche mi sono trovato bene, vivevo con persone che parlavano la mia lingua, c'era una dimensione familiare. Volevo darmi da fare. Abbiamo anche collaborato con Oasi, coinvolti nel pulire strade e sistemare il verde». Nel 2013, Moussa, che nel frattempo ha ottenuto lo status di rifugiato e il permesso di soggiorno, esce dal percorso di accoglienza. Segue un corso di formazione. Si trova un lavoro come badante. Studia. Ottiene la patente. Si trova un alloggio.

Qual è il tuo sogno, Moussa? «Quand'ero in Libia» sorride «l'Europa che sognavo era la Spagna, il Santiago Bernabéu, per vedermi una partita del Real Madrid. Non pensavo ad altro che al calcio. Quando sono fuggito dalla fabbrica di Misurata, l'unica cosa, col telefonino, che mi sono portato dietro, era un decoder per vedere le partite. Qui, gli italiani mi hanno aiutato tanto. E il mio sogno, ora, è di aiutare il mio popolo e gli altri. Voglio sentirmi utile. Quando penso al terremoto, mi chiedo: cosa posso fare, io, adesso?». Moussa, che si tiene tutti i giorni in contatto con la famiglia (mamma e papà vivono ad Agadez, in Niger) sogna anche di fare prima o poi la maratona di Riva del Garda. Intanto, comincerà tra poco ad allenarsi con la squadra del Sopramonte. Moussa, centrocampista, continua a correre.

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