Addio a Franco «Filippo» Filippini Giornalista appassionato e leale
Se ne è andato all’improvviso, quasi in punta di piedi, dopo una vita passata «in trincea» nel mondo dell’informazione. Franco Filippini, giornalista, caporedattore centrale dell’Adige in pensione, se ne è andato ieri. Aveva 77 anni e lo piangono la moglie Franca, i figli Nicola e Silvia. A lasciarci è un grande professionista, un uomo onesto e appassionato, come lo ricordano amici e colleghi.
Iniziò la sua carriera in Alto Adige, fece un’esperienza in Sardegna, venne chiamato a Bolzano a far parte della nascente redazione de «Il Mattino», per poi concludere la sua carriera professionale nel nostro giornale. E due anni fa con il fotografo Giorgio Salomon - amico e collega dagli anni Sessanta, dai tempi dell’alluvione e di Sociologia - tornò a fare il giornalista in prima linea in un emozionante viaggio nell’Europa dell’Est: assieme catturarono testimonianze, volti, espressioni tra i profughi siriani che cercavano di entrare in Europa attraverso la rotta Balcanica. Storie e immagini che, in una mostra, vennero accostate alle fotografie del migranti trentini che nella Grande Guerra furono costretti ad abbandonare le proprie terre finendo nei campi austriaci. L’esposizione venne intitolata «Ombre di guerra e disperazione - Ombre come 100 anni fa».
«Abbiamo fatto due viaggi tra Croazia, Slovenia e Ungheria. Quasi 3.000 chilometri per cercare i profughi, che continuavano a spostarsi. Finché, grazie alla sua tenacia, una sera non li abbiamo trovati - evidenzia con la voce spezzata dall’emozione Giorgio Salomon - Posso dire che era stato lui ad insistere per inserire nella mostra le immagini dell’esodo dei trentini di cento anni prima. Io ero titubante, ma la sua idea del confronto si è rivelata vincente». Per Salomon, Franco Filippini era più di un collega. «Siamo nati lo stesso giorno, lui ha un anno in più. Per me era come un fratello, una persona eccezionale, corretta e onesta. Ma avevamo anche scontri e discussioni - ricorda il fotografo - Ci siamo conosciuti negli anni Sessanta, abbiamo lavorato tanto insieme e anche viaggiato parecchio. Grazie a lui vinsi un premio come miglior fotoreporter: vide la mie fotografie di un incidente e, anche se io non ero d’accordo, le inviò al concorso». Il rammarico di Salomon è di non essere riuscito a mostrare a Franco Filippini la pagina della pubblicazione che uscirà tra pochi giorni sui laghi. «Era stato il suo ultimo lavoro: aveva scritto un pezzo per il mio libro fotografico. Avremmo dovuto vederci a cena in questi giorni. Non ho fatto in tempo a mostrargli il libro».
È al funerale del fotografo Dino Panato lo scorso giugno che, incontrando i colleghi, Filippini non aveva potuto non ricordare gli anni del giornalismo di prima linea, non dietro allo schermo di un computer di oggi o di una Olivetti Lettera 22 di ieri. Racconta Luciano Paris, amministratore delegato dell’Adige oggi in pensione: «Quello è stato il nostro ultimo incontro. Si è parlato di come una volta erano i giornali, come funzionavano. Si diceva che oggi il giornalismo è diventato un lavoro più tecnocratico, meno in trincea per quanto riguarda la vita vissuta. Filippini ne parlava ricordando che Dino Panato aveva sempre, nel bene e nel male, la voglia di essere e di sentirsi sempre in trincea».
«Era convinto del suo lavoro, del suo fare giornalismo che viveva come una missione - prosegue Paris - dedicava 24 ore al giorno alla sua professione, in modo anche schierato perché non aveva mai fatto mistero di far parte di una sinistra dura. Il suo era giornalismo per certi aspetti un po’ militante. Iniziò all’Alto Adige a Bolzano, dove divenne capo della redazione valli, in un periodo mitico per quel giornale, tra gli anni Settanta ed i primi anni Ottanta. Era un periodo effervescente, c’era una redazione frizzante, con una dialettica interna. Parliamo di giornalisti come Fabio Barbieri, Paolo Pagliaro, lo stesso Filippini, un gruppo molto dinamico. Per primi se ne andarono Barbieri e Pagliaro, suoi sodali di idee politiche. Poi toccò a Franco una nuova esperienza professionale: accettò la proposta del Gruppo Espresso di lavorare in Sardegna. Era la metà degli anni Ottanta. Non lo ammise mai, ma forse non trovò il contesto ambientale giusto. Quando, nel 1988, nacque “Il Mattino” di Bolzano, dello stesso editore del giornale l’Adige, lo chiamai: accettò, tornò subito nel continente e divenne caporedattore, spalla del direttore responsabile Toni Visentini. Agli inizi degli anni Novanta, si trasferì a Trento, all’Adige dove di fermò fino al giorno della pensione, nel primi anni Duemila».
Giampaolo Visetti, alla guida dell’Adige da maggio 1994 a febbraio 1998, ricorda Franco Filippini come un grande giornalista, e non solo. «La prova non generica della sua grandezza - evidenzia - è che ha rinunciato a esperienze professionali più vaste, e più superficialmente riconosciute come un certificato sociale di qualità, per impegnarsi quotidianamente nella ricerca e nel racconto più difficile della verità per la comunità in cui è nato, che amava e che considerava essenziale». «Prima che un grande giornalista - prosegue Visetti - è stato però un uomo grande, leale e appassionato, ricco di visioni forti e coerenti, naturalmente dotato dell’ironia che permette di illuminare con leggerezza le vicende più serie. La sua generosità gli ha permesso di insegnare molto a tutti noi: l’Adige e l’informazione indipendente di questa regione non lo dimenticano e sono certo che troveranno il modo di dimostrare concretamente la loro riconoscenza e il loro affetto. Personalmente conservo il ricordo della sua umiltà robusta, negli anni in cui ho lavorato all’Adige con un incarico di responsabilità non proporzionato alla mia esperienza, potendo sempre contare sulla solidità della sua».
Gli amici ed colleghi dell’Adige Renzo Grosselli e Domenico Di Mattia, con Andrea Cobbe e Artan, lo ricordano come «un grande compagno di momenti felici, di bevute e di importanti confronti e discussioni, una persona di grande cultura, dolcezza, umanità».
IL GUSTO DELLE NOTIZIE E DI CAMBIARE IL MONDO
Non serviva il cartello «non disturbare», bastavano i Ray-Ban neri ben calcati sul naso a far capire che non era ancora il momento. Ormai lo sapevano tutti che «Filippo» fino a mattina inoltrata andava lasciato stare. Muto, nel suo ufficio di caporedattore sfogliava i giornali, beveva un caffè e tra le dita faceva capolino una sigaretta.
Erano i segnali del «risveglio». Da lì cominciava il «lavoro vero» che si sarebbe concluso ben oltre lo scoccar della mezzanotte.
Era l’Adige degli anni Novanta dell’altro secolo. Franco Filippini, nome buono solo per l’anagrafe perché per tutti era semplicemente «Filippo», c’era arrivato dopo una lunga esperienza che dal quotidiano Alto Adige lo aveva portato a lavorare per anni alla Nuova Sardegna a Sassari, prima del suo ritorno in regione al Mattino di Bolzano.
Giornalista puntuto e preciso aveva, oltre ai difetti che ognuno di noi si porta orgogliosamente appresso, tanti pregi, non ultimo quello di dire sempre, e non sempre con lo stile di un lord inglese, quello che pensava e, soprattutto, di dire ai colleghi ciò che non si stava facendo bene o che si era fatto in modo non soddisfacente. Sembrano cose ovvie, ma non lo sono per nulla.
Solidamente laico e di sinistra, era stato uno dei pochi nei giornali dell’epoca a cercare di capire e raccontare le ragioni, e i torti, dei protagonisti del ’68 a Trento, mentre altri suoi colleghi li ridicolizzavano. Il gusto della notizia non l’ha mai perso e nemmeno la voglia di un giornalismo intelligente, che poi significa guardare le cose in profondità senza farsi abbagliare dai lustrini che solitamente brillano in superficie.
E poi c’era l’«altro» Filippo, quello che entrava in scena a notte fonda, una volta chiuso il giornale. Notti infinite, perché non bastava andare a mangiare un boccone dopo il lavoro, c’era sempre un motivo per stare assieme anche dopo e perdersi in chiacchiere che col passare delle ore diventavano sempre più gravi. Si partiva dal nulla e si arrivava a cambiare il mondo, a parole. A volte bastava un libro o un film per attraversare svegli la notte. Come quella volta che presi da uno dei tanti sogni a occhi aperti si decise che non si poteva andare a dormire senza aver visto «L’ultimo spettacolo», capolavoro di Peter Bogdanovich tratto dall’omonimo libro di Larry McMurtry.
E così, fatto partire il videoregistratore, forse qualcuno se li ricorda ancora, lo guardammo due volte, come si faceva quando al cinema pagavi il biglietto e potevi starci il pomeriggio e la sera. Nel frattempo albeggiava, il mondo non l’avevamo cambiato e «Filippo» con la sua bella faccia stanca e barbuta, che sembrava un marinaio di un romanzo di Mutis, salutava la compagnia.
Da lì a poche ore avremmo incontrato il «Filippo» coi Ray-Ban, quello che se mi vedesse qui ora davanti al mare a scrivere sul telefonino il suo ricordo, vuoterebbe il bicchiere di whisky e mi darebbe del coglione.
Ciao «Filippo».
Roberto Timo
UN VERO MAESTRO
Di solito i giornalisti, in questi frangenti, si lasciano andare alla retorica a scapito della precisione. Nel ricordare Franco «Filippo» Filippini tenterò di essere preciso e se alcune parole vi sembreranno retoriche sappiate che non lo sono: è la pura verità.
Filippo era un maestro. Lo è stato per me come per altri. Ricordo come fosse oggi il primo giorno di lavoro con lui. A mezzanotte mi alzai timidamente per infilarmi il giaccone e andarmene a casa. Da dietro la voce di Filippo mi interrogò: «Dove vai?». Timidamente abbozzai una risposta: «Abbiamo finito, andrei a casa... è tutt’oggi che lavoriamo… la mia ragazza mi aspetta…».
«Non abbiamo finito - fu la risposta secca - dobbiamo fare l’archivio».
E così ci mettemmo con le forbici a tagliare le fotografie che allora arrivavano materialmente al giornale attraverso una macchina esoterica di cui non ricordo neppure più il nome.
Fu così per mesi. Terminato il lavoro sistemavamo i giornali arretrati, gli articoli, le agenzie; si facevano dossier, si raccoglievano dati, si pensava a nuove grafiche, a nuovi collaboratori, a nuove iniziative. Solo verso l’una di notte Filippo riteneva che avessimo adempiuto al nostro dovere – una parola ormai desueta - e buttava lì un «andiamo a mangiare?».
Si finiva nei pochissimi locali con orari consoni alla vita del giornalista a Trento. Compiuto il nostro dovere, e solo allora, si poteva celebrare un «convivium», nella sua autentica accezione latina. Un rito di fratellanza, si spezzava assieme il pane e si divideva il vino… E se il dovere non era stato compiuto bene, non si andava a mangiare; tutti a casa incazzati perché si sapeva che si sarebbe preso un «buco» o perché un servizio non era come doveva essere o perché qualcuno in redazione aveva dimenticato il proprio dovere.
In quel periodo ho passato più tempo con lui che con la mia ragazza. E ho imparato tante, tante cose.
Nella gestione e organizzazione di un giornale, su come articolare il lavoro di tante persone in un prodotto organico, in una «visione del mondo», Filippo è stato uno dei migliori che abbia mai visto perché era immune dal panico degli incompetenti, un morbo sempre più diffuso nel mondo dell’informazione.
Filippo era anche uno «spaccamaroni», non gli andava mai bene niente. Il fatto è che aveva ragione. Ce ne fossero sempre al nostro fianco di persone così. «Non essere mai pigro», mi disse i primi giorni. E quella cosa me l’ha messa bene in testa. La pigrizia è la morte dell’informazione, e ci sono sempre stati tanti pigroni in giro… Meglio passare la velina che faticare a scavare.
Filippo era un amico. Sono arrivato nei primi anni 90 a Trento senza in pratica conoscere nessuno. Venivo dall’Emilia e Trento, soprattutto allora, non aveva fama di terra ospitale, o almeno c’era un bel po’ di differenza di calore con Bologna e Modena. Filippo mi aiutò in tutto e Franca, una donna di straordinaria pazienza e bontà, aiutò la mia compagna.
Così sono i maestri, così sono gli amici. Persone che offrono le loro conoscenze, la loro compagnia, il loro affetto agli altri, senza chiedere nulla in cambio.
Filippo era una persona giusta, dotata di quella rigorosa dirittura morale che ha già ritratto con la consueta maestria Paolo Pagliaro nel suo articolo dedicato al nostro comune amico. Non c’è bisogno di aggiungere altro a proposito.
Spesso i giornalisti vengono definiti dei mercenari. A questo proposito mi viene sempre in mente «Il mestiere delle armi», un meraviglioso film di Ermanno Olmi. E trovo similitudini tra il Giovanni di Olmi e alcuni, pochissimi, sempre più rari giornalisti. A quel mercenario non interessavano né la gloria, né il potere, né le convenienze, né le rendite di posizione. A quel mercenario interessava fare bene il proprio mestiere, vivere con dignità, inseguendo i propri sogni e morire sperando che qualcuno gli volesse bene.
Ecco: a Filippo sono grato per avermi insegnato il «mestiere della armi» e gli dico di andar tranquillo perché c’è sicuramente chi gli vorrà sempre bene.
Franco Fregni
PROTAGONISTA DEL GIORNALISMO IN REGIONE
Tempo fa lessi che Franco Filippini e Giorgio Salomon avevano firmato un reportage sui migranti siriani in marcia lungo la rotta balcanica e che ne era nata una mostra a Trento. L’idea era di mettere a confronto immagini e testimonianze raccolte tra Croazia e Slovenia.
Metterle a confronto con quelle dell’esodo dei trentini durante la Grande Guerra. Lessi e pensai che la classe, anche quella giornalistica, non invecchia.
Ora che Franco ci ha lasciati, ed è dunque tempo di bilanci, possiamo dire che con lui se ne va un altro protagonista di quella straordinaria stagione del giornalismo regionale che ci regalò uomini della qualità di Piero Agostini, Luigino Mattei, Aldo Gorfer.
Per molto tempo Franco Filippini fu per me la firma in calce a quelle cronache del Sessantotto trentino che io, studente, leggevo avidamente sulle pagine dell’Alto Adige.
Poi diventammo colleghi e soprattutto amici.
Abbiamo lavorato gomito a gomito nelle redazioni dell’Alto Adige e dell’Adige, ci siamo dati il cambio anche a Sassari, alla Nuova Sardegna.
Ora mi chiedo perché Franco – per noi tutti “ Filippo” - fosse così amato dai suoi compagni di lavoro e trovo almeno tre possibili risposte. La prima ha a che fare con quella coscienza del giusto e dell’onesto che chiamiamo dirittura morale.
Credo che lui non abbia mai sacrificato un’idea a una convenienza, una passione a una rendita. Era poi generoso: di sé, del suo tempo, della sua amicizia. Ed era un signor giornalista, uno che si faceva tante domande e se dispensava risposte erano tutte col beneficio del dubbio.
Chi sfoglierà le collezioni dei giornali regionali per ricostruire gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso - gli anni della rivolta studentesca, gli anni di piombo, gli anni del sogno autonomistico – troverà molte tracce di questo giornalismo curioso e chiarificatore, sempre documentato, mai approssimativo.
Erano qualità che Filippo si sforzava di trasmettere ai giovani che i direttori gli affidavano perché li facesse crescere e che oggi hanno perso un fratello maggiore. Aveva una meravigliosa famiglia. A Franca e ai ragazzi, una carezza.
Paolo Pagliaro