Addio a Lucio Visonà l'avvocato gentiluomo
Fino a qualche settimana fa lo si poteva vedere, al mattino, mentre raggiungeva l’ufficio a Rovereto. A piedi, con la sua borsa in pelle, consunta da una vita di professione e ricordi, e per questo più preziosa.
Ogni giorno stava in studio qualche ora, accoglieva i clienti, si occupava delle proprie pratiche. Se serviva, dava indicazioni. Perché il diritto, per l’avvocato Lucio Visonà, è stato più che un lavoro, una passione, che l’ha accompagnato fino alla fine. Se n’è andato ieri, all’età di 94 anni. E con lui se ne va un certo modo di vedere la professione di avvocato. Tanto che ieri molte toghe del basso trentino si sono fermate per ricordare soprattutto il suo essere un esempio. Per rigore, per sensibilità, ma anche per capacità di difendere la dignità di una professione così cambiata nel corso degli anni.
Visonà iniziò a lavorare nel lontano 1952, quando quella dell’avvocato era una professione per pochi, pochissimi. Meno di trenta gli iscritti all’ordine del basso Trentino, ma meno di venti lavoravano davvero. Non una donna, ovviamente.
Lui, figlio di albergatori, non era un predestinato, ma si fece spazio nello studio dell’avvocato Rizzardi. Era l’epoca in cui protagonisti, in tribunale, erano avvocati come Ferrandi o Lupatini e, sul fronte penale, Canestrini. E Visonà interpretava la professione soprattutto con rigore: «Era l’avvocato classico, un gentiluomo, dai modi nobili, estremamente rigoroso - ricorda Bruno Ballardini - ricordo che un giorno, in tribunale, un collega giovane si presentò davanti al collegio con le mani in tasca. E lui, che non c’entrava con quell’udienza, lo fermò e gli chiese: “Ti sembra decoroso?”. Ma la sua non era semplice attenzione alla forma, senza sostanza. Era rispetto per gli altri».
Un rispetto che declinò anche nei rapporti tra colleghi. Perché non si fermava, appunto, alla forma: «Lui aveva a cuore il profilo deontologico dell’avvocatura, da presidente dell’Ordine degli avvocati scrisse un codice di comportamento che fu antesignano del codice deontologico - ricorda ora Paolo Mirandola - Io, che ero nel sindacato nazionale avvocati, portai in giro per l’Italia quelle regole, ricordo che si stupivano tutti». A Rovereto quelle regole le rispettavano tutti anche solo perché le aveva indicate lui, che in quegli anni aveva una credibilità ed un ascendente pesante sul foro. Non a caso particolarmente sentito il messaggio di cordoglio della presidente dell’Ordine degli avvocati, Monica Aste: «Quella di Visonà è stata una delle presidenze più lunghe, ha tenuto le redini con autorevolezza, tanto che il ricordo in molti colleghi è ancora vivo. È stato un simbolo di correttezza e lealtà. Soprattutto, pur conservando sempre modi signorili e garbati, era sempre pronto a difendere il ruolo e la dignità dell’avvocato».
In tribunale trattava i magistrati, e da loro era trattato, come un loro pari, in un’epoca in cui il riconoscimento reciproco era la regola. Basti pensare che al termine dell’assemblea dell’ordine degli avvocati si teneva la cena annuale. E a quel tavolo sedevano, invitati, anche i magistrati. Gente come Raffaele Fuardo, Renato Zamboni, Luciano Carestia, Antonio Grassi. Come detto, un altro mondo.
Ma Lucio Visonà non era solo legge, codici e dispute legali. Era un uomo che si è dedicato alla famiglia - lascia la moglie Tina e i figli Paolo e Giangi - e alle sue passioni. Lo sport su tutto: golf, sci e vela, che ha praticato fino a pochissimi anni fa. E poi l’impegno sociale, nel Lions Host. «Era uno dei nostri soci storici - ricorda la presidente Ilaria Govanazzi, per altro anche lei avvocato - che tuttora partecipava agli eventi organizzati dal club. È stato un punto di riferimento sia per i soci del Lions host sia per gli avvocati roveretani».