Giorgio Tonini: “Metodo Ciampi per Draghi al Quirinale”
L’analisi e le previsioni sulla tornata per eleggere il nuovo Capo dello Stato del consigliere provinciale del Pd
Senatore Giorgio Tonini, come “legge” le trattative per il nuovo presidente della Repubblica?
Credo che sia utile partire dalle esperienze precedenti, per illuminare la situazione attuale. Esercitiamo la memoria storica: prendiamo esempio dal 1999. Con il metodo Ciampi si potrà arrivare all’elezione di Mario Draghi. (Giorgio Tonini oggi è consigliere provinciale e regionale del Partito democratico. Nato a Roma, 63 anni, è stato senatore della Repubblica per quattro legislature, dal 2001 al 2018). Partiamo appunto dal 1999. Carlo Azeglio Ciampi venne eletto alla prima votazione.
Io ho partecipato all’elezione di Giorgio Napolitano (due volte) e di Sergio Mattarella. Nel 1999 ero tra i più stretti collaboratori di Walter Veltroni, che fece il capolavoro di proporre Ciampi.
Come arrivò a quella scelta?
Il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema e c’era chi ragionava in termini di spartizione, secondo il manuale Cencelli che in Italia è sempre attuale. Visto che a Palazzo Chigi c’era un ex Pci, serviva quindi un ex Dc al Quirinale. Non a caso erano forti le candidature di Mancino e Rosa Russo Iervolino.
Ma Veltroni si oppose.
Veltroni disse no alla lottizzazione di una carica così importante. Lavorò per trovare un consenso ampio, ricordando che tanto più il sistema è polarizzato tanto più si deve convergere su un arbitro nel quale riconoscersi. Un ragionamento che fece breccia prima su Fini, poi su Casini e Gianni Letta e infine anche su Berlusconi, che si convinse.
Poi però lo schema condiviso è saltato, con Napolitano e Mattarella.
È vero che dopo Ciampi quel metodo ha fatto fatica ad imporsi.
Come si arrivò a Napolitano?
Si votava subito dopo la vittoria dell’Unione di Romano Prodi nel 2006: una vittoria che per ventimila voti fece scattare il premio di maggioranza alla Camera, mentre al Senato eravamo sostanzialmente sotto. Il centrosinistra ragionò in termini di spartizione, con un accordo stabilito ancora prima delle elezioni: Prodi presidente del Consiglio, Bertinotti alla Camera, Marini al Senato e D’Alema presidente della Repubblica.
Andò male. Marini faticò e D’Alema dovette arrendersi.
Infatti anche allora serviva una convergenza più ampia. Molti ritennero intollerabile eleggere alla presidenza della Repubblica un leader politico di primo piano: molti pensarono che sarebbe stato uno schiaffo alla metà del Paese che non ci aveva votato.
La pensava così anche lei?
Certo, e lo dissi pubblicamente. Fassino e Rutelli concordarono quindi con D’Alema di fare un passo indietro e venne proposto il nome di Giorgio Napolitano, che non era stato segretario di partito ed era stato presidente della Camera. Il centrosinistra mostrava quindi un atteggiamento diverso e l’opposizione votò scheda bianca.
Sette anni dopo il centrosinistra bruciò Marini e Prodi prima di andare a chiedere a Napolitano di restare. E nel 2015 nemmeno Mattarella era un nome condiviso.
Anche in questo caso il nome scelto rappresentava la maggioranza. Il regista dell’elezione di Sergio Mattarella fu Matteo Renzi, che fece una scelta che si è rivelata felice da ogni punto di vista. Ma chi non votò Mattarella lo fece con imbarazzo, perché stiamo parlando di una figura che si è sempre dimostrata in grado di parlare con tutti. La scelta fu talmente felice che oggi c’è chi non ha votato Mattarella e gli chiede di restare.
Da allora è iniziato il declino di Renzi.
Matteo Renzi ha pagato in prima persona, perché Silvio Berlusconi ruppe il patto del Nazareno e passò all’opposizione sul fronte delle riforme. Con la conseguenza che perdemmo il referendum sulla riforma costituzionale e Renzi perse la presidenza del Consiglio. Ma con Mattarella fece un capolavoro.
Quindi lei dice: da domani (lunedì 24 gennaio) il presidente della Repubblica non si potrà eleggere a colpi di maggioranza.
Attenzione. Il ragionamento fatto finora ha un elemento aggiunto: una maggioranza politica non c’è, in Parlamento.
Non è un particolare da poco.
Non si dovrebbe fare l’errore di eleggere un presidente di parte senza averne i numeri. Anche per questo dico che bisogna lavorare per un candidato di grande convergenza.
Di qui la scelta su Draghi.
Mi sembra la scelta più seria e feconda. Su di lui potrebbero convergere tutte le forze che sostengono il suo governo, senza escludere neppure Giorgia Meloni. Draghi sarebbe importante anche come riferimento in Europa: vi ricordo che questa legislatura è iniziata con al governo due forze anti europeiste ed è proseguita con il massimo dell’europeismo possibile, per fortuna.
Però c’è il problema del governo. Chi lo guida?
Draghi stesso ha detto che l’esperienza del governo è stata impostata. Se si depongono le armi velleitarie dello scontro, escludo che un accordo sul presidente della Repubblica non possa prevedere anche un’intesa sul nuovo governo.
Crede nel bis di Mattarella?
Ipotesi non impossibile, ma che non può essere considerata in prima battuta. Del resto, anche Mattarella stesso si è detto contrario: non perché è stanco e si vuole riposare, ma perché sarebbe una scelta sbagliata in un Paese nel quale la cultura della proroga è forte.
Cosa pensa della candidatura di Berlusconi, che ieri si è ritirato?
Capisco la parte del Paese che sogna di vedere al Colle un presidente di centrodestra. Ma come era sbagliato proporre D’Alema oggi sarebbe stato sbagliato proporre Berlusconi. Bisogna fare di necessità virtù: togliere i candidati di parte e lavorare per una soluzione condivisa, come solo Draghi potrebbe essere.