Mario Raffaelli: «Sì a Cossiga, ma bocciai Scalfaro»
Classe 1946, dal 1979 al 1994 è stato in parlamento, per sei anni sottosegretario agli esteri, dal 1983 al 1989, a cavallo dei mandati presidenziali di Sandro Pertini e Francesco Cossiga al Quirinale (intervista uscita il 20 gennaio)
Mario Raffaelli, segretario trentino (di transizione e «lancio dei giovani») di Azione, il partito di Carlo Calenda, prima di presiedere organizzazioni di cooperazione internazionale è stato politico socialista di lungo corso. Classe 1946, dal 1979 al 1994 è stato in parlamento, per sei anni sottosegretario agli esteri, dal 1983 al 1989, a cavallo dei mandati presidenziali di Sandro Pertini e Francesco Cossiga al Quirinale.
Da deputato ha partecipato alle elezioni di Cossiga nel luglio 1985 e di Oscar Luigi Scalfaro nel maggio 1992. Votando convintamente per il primo, ma negando il voto al secondo.
Onorevole Raffaelli, perché Scalfaro, eletto con il 66,5% delle preferenze trent'anni fa, non era il suo candidato?
«Scalfaro fu voluto da Marco Pannella e da Craxi. Pannella era in una fase critica sul parlamento e Scalfaro era stato duro sul tema. Così Pannella ne fu sponsor. Craxi l'aveva avuto come ministro dell'interno. A me non piaceva. Era un cattolico oscurantista, lontano dal mio laicismo. Lo consideravo un politico mediocre e così si è rivelato. Non ha saputo gestire la transizione del periodo di Tangentopoli ma ha semplicemente accompagnato il tracollo che ancora oggi pesa, purtroppo, sul sistema politico italiano».
Cossiga, invece, sette anni prima, nel 1985, aveva avuto il suo voto convinto.
«Era un uomo dalla grandissima cultura, di grande intelligenza e curiosità. Ricordo che da sottosegretario agli esteri lo accompagnai in diversi viaggi. I dossier ufficiali e standardizzati non gli bastavano. In un viaggio in Africa, sull'aereo che ci portava in Zimbabwe, nel 1989, volle che gli spiegassi tutta la complessa situazione etnica del paese. Aveva, certo, un carattere intemperante e a volte fuori dalle righe. Sulla sua psicologia incise molto il delitto Moro. Sentiva un senso di colpa. Ma nelle sue "picconate" c'erano verità assolute e lucide sulla necessità di vere riforme istituzionali».
Lavorò anche con Pertini, pur non avendolo eletto…
«Lui fu eletto nel 1978 e io entrai in parlamento nel 1979. Ma anche con Pertini, da sottosegretario, feci diversi viaggi all'estero. Grande presidente, fece amare le istituzioni. Una volta in Egitto volle a tutti i costi incontrare fuori dall'albergo un gruppo di operai italiani che aveva saputo lavorare in un vicino cantiere. E raccontò loro di quando faceva il muratore in Svizzera. Aveva un eccezionale rapporto diretto con la popolazione. Ma era anche collerico. E custodiva il segreto desiderio di essere riconfermato per un secondo mandato. Sarebbe stata la prima volta. E non lesinò, anche in pubblico, critiche aspre nei confronti della moglie di Fanfani e dell'ex presidente Leone che osteggiavano questa sua aspirazione».
Vede qualche analogia tra la situazione di oggi, il complesso risiko e la confusione ai piedi del Colle più alto e le vigilie di elezioni quirinalizie che visse lei nel 1985 e nel 1992?
«Sono contesti molto diversi. La più grande differenza è che allora i partiti contavano ancora, mentre oggi non sono in grado di gestire nulla. Con il 1992 vedo una analogia nel rischio di collasso del sistema. Allora c'era appena stata la strage di Capaci e iniziava Tangentopoli. I partiti erano alle corde ma esistevano. Erano impensabili le migrazioni massicce di transfughi da un partito all'altro, di parlamentari che rispondono solo a se stessi. Sarebbero emerse crisi di coscienza enormi e casi di vero isolamento. Al massimo c'era qualche piccola scissione».
Qualche analista ma anche più di qualche politico ritiene che questo parlamento abbia poca legittimazione ad eleggere il nuovo Capo dello Stato. È d'accordo?
«Il legislatore costituente ha previsto giustamente che le legislature parlamentari non coincidano con il settennato presidenziale. Non vedo nessuna illegittimità se pensiamo solo a questioni elettorali, al fatto che i sondaggi ci dicono che questo parlamento non rispecchia più l'orientamento di voto degli italiani. Ritengo che la distorsione stia nel fatto che i partiti - anche il Pd - hanno scelto il taglio dei parlamentari senza mettere mano a una riforma della legge elettorale».
Draghi meglio a Palazzo Chigi o alla presidenza della Repubblica?
«Ovvio che Draghi è meglio alla presidenza del Consiglio, sarebbe la soluzione ottimale. Ma serve una maggioranza che funzioni, concorde su 3-4 punti di programma fino a primavera 2023. Altrimenti Draghi è meglio al Quirinale, se no si rischia di perderlo su entrambi i fronti. Draghi ha detto una cosa importante e sottovalutata in una recente conferenza stampa: che il presidente della Repubblica deve essere eletto con una maggioranza almeno pari a quella dell'attuale governo».
Ma con Draghi al Colle e un tecnico a palazzo Chigi ancora per un anno si rischia, de facto, una sorta di semi-presidenzialismo mascherato?
«Non vedo questo rischio e lo ritengo una forzatura. Come ha avuto modo di dire Giuliano Amato, quelli del Presidente della Repubblica sono poteri a fisarmonica. Tanto è più forte il potere politico, tanto più discreto il ruolo dell'inquilino del Quirinale. E viceversa».
Veniamo, infine, ai nomi. Berlusconi pare tramontato. Lei ha citato Giuliano Amato, che potrebbe essere una riserva della Repubblica. E la Cartabia ha chances concrete?
«Il balletto su Berlusconi ha bloccato un confronto ragionevole ma anche tutto il centrodestra. Finita la partita per il Quirinale, i suoi eletti e elettori dovranno fare un ragionamento. Amato sarebbe un grande presidente, ma sconta la pregiudiziale dei 5 Stelle. Ottima la Cartabia: non ha appartenenze politiche ed è una donna, segno di novità. Dal centrodestra spendibili ci sono Marcello Pera e Letizia Moratti».