Femminicidio, per Marco Manfrini niente domiciliari in attesa dell'Appello: «pericolo reiterazione, un percorso lineare di violenza»
Nel settembre 2019 uccise la moglie Eleonora Perraro, deve rimanere nel carcere di Spini di Gardolo, il suo ricorso respinto anche in Cassazione e dovrà pagarne le spese legali
ROVERETO. Tra un mese e mezzo Marco Manfrini - condannato all'ergastolo per l'omicidio della moglie Eleonora Perraro - tornerà in Corte d'assise per l'appello. L'attesa, però, contrariamente al primo grado la trascorrerà in cella. Perché anche la Corte di Cassazione ha confermato la mancata esigenza dei domiciliari e, di conseguenza, la restrizione nella casa circondariale di Spini di Gardolo.
Una decisione lampo, quella contestata, presa dallo stesso presidente della corte Giuseppe Serao appena letta la sentenza di primo grado il 20 luglio scorso. E così, il giorno dopo il verdetto, i carabinieri bussarono alla sua porta di casa in via Monte Corno, dove stava scontando appunto gli arresti domiciliari, mostrandogli l'ordinanza e riportandolo in carcere.
L'avvocato difensore Elena Cainelli, ovviamente, impugnò la decisione: «Il provvedimento del giudice che ripristina la misura carceraria non tiene conto dell'appello e delle motivazioni accolte in appello. Il giudice sostiene che non c'è più l'emergenza Covid e che c'è una sentenza di primo grado ma non menziona nel provvedimento il fatto che le esigenze cautelari secondo il tribunale del riesame erano ampiamente soddisfatte dagli arresti domiciliari. Non capisco dunque perché ci debba essere un peggioramento delle misure cautelari, non ci sono le ragioni per questo».
Ma il tribunale della libertà ha rigettato il ricorso. La difesa, ovviamente, non si è data per vinta e si è rivolta alla cassazione. Che dopo aver analizzato gli atti ha però confermato la misura cautelare in cella negando la reclusione domestica.
Un rigetto, per altro, con perdite visto che, in virtù dell'esito negativo dell'udienza, Manfrini dovrà versare tremila euro alla cassa delle ammende.
A nulla è valso il richiamo allo stato di salute dell'imputato e ai precedenti sedici mesi trascorsi chiuso in casa con tanto di braccialetto elettronico senza mai sgarrare. Gli avvocati Cainelli e Campone (nel frattempo aggregatosi al collegio difensivo) hanno pure insistito per la mancata pericolosità del loro assistito in proporzione diretta col tempo trascorso dal fatto delittuoso. Ed hanno contestato anche l'omessa valutazione sull'inadeguatezza degli arresti domiciliari a soddisfare le esigenze cautelari.
La suprema corte, però, ha ritenuto il ricorso «manifestamente infondato». In primo luogo, gli ermellini ricordano che «l'ordinanza impugnata richiama un consolidato principio di diritto per il quale l'intervenuta pronuncia di una sentenza di condanna costituisce di per sé un fatto nuovo che legittima l'emissione di una misura coercitiva personale, non ostando a tal fine la formazione del giudicato cautelare precedente, e costituisce inoltre elemento idoneo a fondare la presunzione di pericolosità che impone la misura della custodia cautelare in carcere».
La cassazione parla poi di pericolo reiterativo. «Appare ineccepibile la parte della motivazione del provvedimento impugnato in cui si evidenzia che Manfrini doveva essere considerato ancora pericoloso proprio per le risultanze emerse in udienza, per i precedenti dell'imputato, tra i quali uno specifico di lesioni nei confronti dell'ex compagna, dell'intervenuto ammonimento emesso dal questore per gli atti persecutori posti in essere nei confronti della vittima del delitto di questo procedimento, sicché è stata valutata l'intera storia criminale dell'imputato che ha mostrato un percorso di violenza mai mutato, per il sopravvenire di elementi di segno opposto».
Marco Manfrini, lo scorso luglio, è stato condannato al massimo della pena per l'omicidio della moglie Eleonora Perraro, uccisa nella notte tra il 4 e il 5 settembre 2019 nel giardino del locale Sesto Grado di Nago Torbole. Il 28 marzo si aprirà, sempre in assise, il processo d'appello.