Grandi donne trentine: Bruna Menghini, missionaria francescana prima in Libia e ora in Tunisia, si racconta
Originaria di Brez, ha subito dedicato la sua vita agli altri: “Vivere nell’incontro quotidiano con i credenti, nel mondo dell’Islam, mi ha spesso esposta a tante occasioni per approfondire la mia fede. Cosa consiglierei? Di liberarsi dai pregiudizi e accogliere le ricchezze di ciascuno”
STORIE Le interviste dei trentini all'estero
TRENTO. È di Brez, in Val di Non, dove è nata nel 1937. Suor Bruna Menghini è emozionata quando parla (intervista raccolta attraverso Mondo Trentino): “Eravamo una famiglia di nove figli, io la seconda del gruppo. Ho lasciato la famiglia nel 1963 per rispondere al desiderio di consacrarmi alla vita religiosa e missionaria”. Dopo 11 anni di Libia, ora porta avanti la sua missione in Tunisia.
“Prima di tutto voglio dire che sono una suora Francescana Missionaria di Maria, appartengo a «un Istituto religioso internazionale consacrato alla Missione universale. Noi rispondiamo ai bisogni del mondo e della chiesa universale e particolare secondo il nostro carisma, attraverso l’annuncio di Gesù Cristo, fatto di testimonianza di vita e proclamazione della Parola”.
Qual è stato il suo percorso scolastico-formativo? Quando e perché ha iniziato a studiare l’arabo?
Dopo le elementari a Brez e le medie a Cles sono andata a Merano, ospite di una zia, per frequentare il ginnasio/liceo. Ottenuto il diploma di maestra, ho insegnato per qualche anno nei paesini della Val Venosta. Ma il cuore sognava già paesi lontani. Lo studio dell’arabo è venuto più tardi.
Quando è nata la vocazione per poi entrare nell’ordine francescano?
Ero ancora bambina, ricordo bene. Volevo semplicemente conoscere Gesù, incontrarlo, vederlo e pensavo ai bambini che non avevano mai sentito parlare di Lui. A Brez, ci si interessava molto alle missioni : come non diventare come quei missionari che venivano da lontano?
C’è voluto del tempo per discernere quale cammino intraprendere ; c’era stata anzitutto la formazione in famiglia, a scuola e poi, soprattutto a Merano, in parrocchia ; un passo alla volta, cogliendo «i segni» che potevano fortificare «la chiamata». Attraverso un’amica dell’azione cattolica ho conosciuto l’Istituto delle Francescane Missionarie di Maria ed ho sentito che il mio posto era con loro.
Ora dove vive e cosa fa?
Attualmente vivo a Ain Draham, in Tunisia. È un grande villaggio nel Nord Ovest, al confine con l’Algeria, una zona di montagna. È una regione povera nell’insieme, manca il lavoro e la gente fatica a trovare i mezzi di sussistenza.
Le nostre suore sono arrivate qui novant‘anni fa ed hanno sempre cercato di rispondere ai bisogni del momento, con disponibilità e creatività, vivendo sempre con la gente, nel servizio e nell’amicizia, e cercando di imparare la lingua e conoscere la cultura.
Attualmente noi teniamo una scuola materna con un centinaio di bambini dai tre ai cinque anni, della scuola abbiamo la direzione e la gestione, ma le maestre sono tutte tunisine come pure il personale di servizio : educare i bambini e prepararli a crescere inculcando valori e nel rispetto delle loro differenze (per noi, tutti sono eguali) è una missione importante, condivisa con i nostri collaboratori nella semplicità, mentre il nostro servizio è apprezzato dalle famiglie. Questa è «la ragione sociale» della nostra presenza qui in un contesto completamente mussulmano. La nostra comunità è la sola presenza cristiana nel villaggio, insieme al sacerdote che vive qui.
Ma non è tutto: grazie ad una rete di «donatori» possiamo essere attente a tante domande di aiuto, una specie di servizio sociale per chi si trova nel bisogno: sono numerosi quelli che suonano alla nostra porta!
Personalmente io sono disponibile all’accoglienza, i bambini al mattino quando arrivano, le persone che suonano durante la giornata; tra queste possiamo contare anche amici del tempo passato o di nuova data che arricchiscono il raggio delle nostre relazioni di fraternità.
Tutto iniziò quando si è trovata ad affrontare una missione importante nei Paesi del Nord Africa, quand'è successo e dove si è trasferita?
Finito il noviziato a Grottaferrata (Roma) nel 1966, le mie superiore mi hanno proposto di studiare l’arabo per poi poter essere inviata in Africa del Nord. Sono entrata nel progetto con passione e devo ringraziare i Padri Bianchi a Roma che mi hanno iniziata alla missione nei paesi mussulmani, ben diversa da quella che avevo intravisto all’inizio.
Nell’estate 1969 sono andata in Libia per un’esperienza con un gruppo di ragazze, doveva durare solo due mesi ma le circostanze hanno cambiato il programma e ci sono rimasta «per restare».
Due mesi dopo il mio arrivo infatti c’è stata la rivoluzione di Gheddafi che ha cambiato la vita di tutti in Libia. La «presenza italiana in Libia» doveva sparire e la nostra scuola ne faceva parte: tutti i beni degli italiani erano confiscati, tutti gli italiani erano cacciati! È stata un’esperienza dolorosa. Ma noi cercavamo di restare, dopo tutto non eravamo coloni. Durante l’estate 1970 le partenze si susseguivano, quasi tutte le consorelle erano del numero di quanti partivano ma un gruppetto cercava di tener duro.
L’occasione, indirettamente, è venuta proprio da Gheddafi perché tra l’altro voleva aprire dei centri di formazione per le ragazze e le donne e nel nostro gruppo c’erano tre suore conosciute per la loro esperienza in merito. Così il gruppetto di dodici suore ha trovato la possibilità di restare, impiegate del governo nei centri che stavano per nascere. Come dicevo allora, non era più la gente che veniva a noi, eravamo noi che uscivamo dalla nostra casa per andare da loro: con il nostro impegno quotidiano portavamo quel «Quinto Vangelo» che la testimonianza quotidiana poteva offrire!
Una volta arrivata in Libia nel 1969, ci è poi rimasta per ben 11 anni, in quale località esattamente? Quali erano le attività che la impegnavano nello specifico e qual’era la situazione in quel periodo in quel Paese?
I primi anni ero a Tripoli, nell’abitazione che avevamo preso in affitto: eravamo dodici suore che insegnavano cucito, maglieria o altro a giovani donne o che si occupavano di bambine accolte in un orfanotrofio: quanti legami di amicizia si sono creati! Malgrado tutte le difficoltà per adattarsi alla nuova situazione eravamo felici. Anche la chiesa doveva fare un cammino con i pochi cristiani rimasti sul posto: erano spesso operai di varie nazionalità e lì abbiamo imparato il valore dell’internazionalità.
A Tripoli c’era una sola chiesa aperta, con un vescovo e quattro sacerdoti, tutti francescani; con loro la collaborazione e la fraternità erano concrete e vissute nella semplicità. Potevamo liberamente vivere le celebrazioni liturgiche, i cristiani presenti erano liberi di venire in chiesa, c’era il catechismo per i bambini presenti.
All’inizio della rivoluzione c’era l’euforia della novità che purtroppo non è durata a lungo: il giovane colonnello non ha tardato a diventare « il capo ». In un secondo tempo sono stata trasferita a Suani, un villaggio non lontano da Tripoli; lì le consorelle erano impegnate in un centro per bambini disabili, lavoro durissimo con personale non preparato e non motivato. Anche i centri per disabili erano una novità di Gheddafi; col tempo poi la situazione si è migliorata. Io però non lavoravo direttamente con quei bambini ma ero a servizio della nostra comunità.
Nel 1980 si è spostata in Tunisia rimanendovi per ben 7 anni. Quali attività svolgeva in quell’area?
Ero a Ain Draham dove mi trovo ora e facevo un po’ di tutto: avevamo qui una scuola materna e una scuola cha accoglieva bambine e ragazze che non avevano potuto frequentare la scuola perchè abitavano lontano o non erano più accolte a scuola per limiti di età: passavano tre o quattro anni qui (o anche più) e si cercava di aiutarle a crescere e a imparare un po’ di tutto: cultura generale, cucito, maglieria, ricamo, tappeto: un compito meraviglioso che dava buoni risultati.
Personalmente io ero impegnata piuttosto nel servizio della carità: accogliere, visitare chi domandava aiuti e coordinare tutto quello che la generosità di organismi o gente di buona volontà ci confidava perché fosse distribuito a chi era nel bisogno. Ma tra noi suore c’era sempre la collaborazione, il servizio era condiviso. Vorrei anche dire che tutto quello che cerchiamo di fare è sempre e prima di tutto un mezzo per essere quel Quinto Vangelo che tutti possono leggere se lo viviamo. La Fondatrice del nostro Istituto diceva : «Cammina come un Vangelo vivente!»
Tornata poi in Libia dal 1987 fino al 1995 quale situazione aveva ritrovato?
Negli anni Ottanta la Libia ha subito un importante isolamento internazionale perchè accusata di sostegno al terrorismo; sono stati anni difficili per tutti (attentati, bombardamenti, frontiere chiuse, ecc.), mancavano le cose più importanti per la vita di tutti i giorni e mancava soprattutto la pace nel paese sempre minacciato da rappresaglie di vario tipo. Quando sono arrivata si cominciava a sentire un po’ di apertura, e piano piano la vita è passata verso una certa normalità e finalmente la fine dell’isolamento.
La casa che costituiva il nostro «nuovo convento» era stata bombardata dagli Americani, la comunità si era trasferita in un quartiere di periferia, i centri in cui lavoravano le sorelle erano stati soppressi, per noi era difficile trovare altre possibilità di lavoro e alcune sorelle erano partite. Tornando, io ho potuto ritrovare un’inserzione nell’ambito degli «affari sociali» occupandomi in modo particolare di donne anziane o disabili in un grande centro recentemente aperto. Per me è stata un’esperienza molto ricca di relazioni.
Dal 1995 al 2005 dove ha svolto la sua attività?
Circolando tra Algeria, Libia e Tunisia: come provinciale ero incaricata delle relazioni tra le nostre diverse comunità inserite nei tre paesi. E’ stata un’occasione privilegiata per conoscere le molteplici «forme di missione» che fanno però l’unità tra le nostre Chiese del Maghreb, nella complementarietà dei carismi. Erano pure gli «anni neri» in Algeria : una sanguinosa guerra civile, tempo di integrismo islamico e di martiri: i più conosciuti sono i monaci di Tibhirine. La situazione in Algeria era dunque nel cuore delle questioni e preoccupazioni e ci ha aiutato ad approfondire sempre più le ragioni della nostra volontà di restare per mantenere una presenza cristiana di solidarietà e comunione con il popolo e di testimonianza.
Tra il 2005 e il 2013 rientra in Libia. Dalle visite e relazioni con le comunità che Libia ha ritrovato?
Quando sono tornata due cose mi hanno colpita: la presenza massiva dei migranti e il cambiamento radicale dell’abbigliamento delle donne, due segni dei tempi. La Libia era diventata luogo di passaggio per chi cercava «un futuro migliore» sperando di trovarlo nell’emigrazione verso l’Europa e una terra marcata dalla radicalizzazione dell’islam. Per quanto riguarda la presenza cristiana, era evidente che la chiesa di Tripoli era diventata un carrefour di nazionalità e di culture. È difficile per me parlare della confusione di tutto quello che accadeva o succedeva in quest’ultimo periodo della mia presenza in Libia.
Le comunità religiose diminuivano sempre più, era difficile trovare inserzioni di lavoro che ci permettessero di essere in contatto con la gente e di guadagnare il pane quotidiano.
Quanto a me, con due suore infermiere sono partita da Tripoli verso una cittadina di montagna, Yefren, dove la popolazione era berbera. Le consorelle erano impegnare nell’ospedale del luogo, io tenevo casa e cercavo le relazioni con il vicinato, che erano molto fraterne; insieme abbiamo vissuto alcuni anni di integrazione e condiviso a partire dal 2010 le vicissitudini della Primavera araba e finalmente la caduta di Gheddafi nel 2012.
Ora vive in Tunisia, una Tunisia non particolarmente stabile dal punto di vista economico e sociale, in cui i giovani soprattutto studiano magari fino all’Università ma poi rientrano a casa, nei villaggi, dove non c’è possibilità di lavoro né di crescita collettiva. Vede degli spiragli all’orizzonte per questi giovani e che ruolo avete voi nella realtà locale?
Fare delle proiezioni sul futuro è difficile, si sente un’instabilità generale e la gente non si pronuncia. Noi cerchiamo di offrire il nostro contributo come possiamo, sia con l’educazione dei bambini e la presenza ai genitori, sia con l’amicizia di quanti vengono a noi, aiutando chi si trova nel bisogno con quanto noi stesse riceviamo per loro. I nostri vescovi ci invitano ad essere testimoni di speranza. Vogliamo essere, attraverso tutte le nostre relazioni, una presenza umanizzante che si nutre grazie all’impegno nella preghiera e la forza della fraternità.
Ogni tre anni la comunità locale di dove è nata in Trentino, organizza delle serate aperte al pubblico, un’occasione di incontro in cui lei racconta la sua esperienza in missione. Qual é, a suo parere, l’effetto che il suo racconto suscita sul pubblico presente? E nel rientrare poi alla sua missione quali nuovi stimoli porta con sé dal Trentino?
L’incontro è sempre una bella chiacchierata in cui io cerco di far conoscere questo tipo di missione che è il dialogo inter-religioso vissuto nel rispetto dell’interlocutore e nella ricerca di quanto c’è di bello e di buono nelle altre tradizioni religiose, per un cammino verso « la verità intera » che scopriremo quando verrà l’incontro con «Colui che tutti cerchiamo», ciascuno secondo la sua fede e la sua tradizione. Nell’incontro del 2019 sono rimasta sorpresa perché l’incontro era stato allargato ad altri gruppi missionari parrocchiali che si erano preparati studiando il documento sulla fratellanza umana, firmato dal Papa a Abu Dhabi con il Grande Imam di Il Cairo.
L’interesse che sento in questi incontri è un incentivo per rafforzare la mia passione per la missione che mi è data, malgrado i miei limiti e le circostanze che viviamo, nella speranza. È bello e incoraggiante sentirsi in comunione con le proprie radici!
Se dovesse fare il punto rispetto a ciò che ha visto e vissuto in tutti questi anni, alle persone che ha incontrato in tanti luoghi diversi, come ritiene la sua missione ad oggi? Cosa consiglierebbe a tutti coloro che la stanno leggendo?
Mi avete costretta a rileggere la mia vita missionaria; non mi sembra vero di aver potuto vivere per più di mezzo secolo una tale ricchezza che è dono di Dio! Mai l’avrei immaginato quando ho lasciato la mia famiglia!
Finalmente, siamo tutti fratelli; ci scopriamo tutti «esseri umani in cammino» e, pur con i nostri limiti, possiamo collaborare ovunque a «costruire ponti tra i popoli e le culture» e andare insieme verso «il Dio che ci è donato di conoscere». Vivere nell’incontro quotidiano con i credenti, nel mondo dell’Islam, mi ha spesso esposta a tante occasioni per approfondire la mia fede, per cercare di esprimere quello che volevo dire con chiarezza e semplicità, in un dialogo che sa ricevere le certezze altrui.
Cosa consiglierei? Più importante per me sarebbe di liberarsi dai pregiudizi e accogliere le ricchezze di ciascuno prima di vedere quello che non capisco, che non mi piace, che non corrisponde a quello che credo. Il pregiudizio favorevole può sembrare ingenuità ma è ricchezza se vissuto nella reciprocità. «Non possiedo tutta la verità (diceva il Beato vescovo Claverie) ma ho bisogno della verità dell’altro». Naturalmente questo che ho detto non giustifica le «deviazioni in nome di Dio, della religione», ci vuole discernimento, sempre. Un invito: conoscere e condividere un pezzetto di cammino per scoprire la fratellanza umana! Al di là delle nostre differenze, sensibilità, culture, opinioni, Gesù ci accoglie nel suo amore, credenti assetati di infinito che Lui solo può colmare.