Luoghi “sedotti e abbandonati” quelle ferite nelle comunità trentina
Adesso serve un processo partecipativo per dare un futuro a quegli spazi. Tre anni fa la nascita del progetto “Sedotti e Abbandonati”: si sentiva impellente la necessità di rientrare in contatto fisico e personale con quei posti. Ricostruire il rapporto di reciprocità tra luoghi e identità collettiva è un processo culturale, non tecnico
IL PUNTO In Trentino oltre 400 ruderi, il caso degli edifici dismessi
FUTURO Sono spazi che ci interrogano: bisogna costruire sul «costruito»
ESEMPIO Con "Centrale Fies" la prima rigenerazione italiana di archeologia industriale a fini artistici
“Avvicinarsi alla diversità con stupore” si legge nel Manifesto del Terzo Paesaggio di Gilles Clément, come anche “considerare la non organizzazione come un principio vitale grazie al quale ogni organizzazione si lascia attraversare dai lampi della vita”. Non è un’attitudine sovversiva quella che ci ha animato un paio di anni fa e ci ha dato la motivazione per creare il progetto “Sedotti e Abbandonati”, ma bensì un’indole curiosa e aperta a lasciarsi emozionare dai luoghi che ci circondano. Si sentiva impellente la necessità di rientrare in contatto fisico, personale, direi intimo con essi. Farne esperienza diretta. Ricostruire il rapporto di reciprocità tra luoghi e identità collettiva. È un processo culturale, non tecnico.
È con questo impulso che nel 2020 è nato il progetto “Sedotti e Abbandonati”, promosso dal Collegio degli Ingegneri del Trentino con il contributo del Citrac (Circolo Trentino di Architettura contemporanea), dell’Associazione Fotografica Il Fotogramma e col sostegno della Fondazione Caritro: partire da una mappatura fotografica ampia e partecipata degli edifici abbandonati sul territorio trentino per indurre la cittadinanza ad una riflessione collettiva rispetto al paesaggio che abitiamo in termini di mappa mentale. Citando Franco la Cecla «non solo nei termini “io dove sono?” ma anche “chi sono rispetto a chi?”» il costruito disegna la mappa della vita delle comunità “descrivere il proprio abitare significa descrivere se stessi, visto che non si esiste in astratto, ma sempre da qualche parte” scrive La Cecla “C’è un passaggio iniziale tra geografia e persone. Le persone interiorizzano i luoghi, diventano i luoghi” ed “è la stessa interiorizzazione del mondo (la mappa mentale di luoghi che non ci sono più) che consente ad una cultura di riproporsi a distanza di anni e agli abitanti di un posto di saper ricostruire il proprio insediamento dopo una calamità, una guerra o una rilocazione forzata, o semplicemente di saper ricordare un paese di origine.”
Il nome dell'iniziativa strizza l’occhio ad una personificazione degli edifici che furono sedotti dal poter essere qualcosa o dall’avere una certa funzione, e sono stati però poi abbandonati, dimenticati come luoghi senza importanza. La fotografia è lo strumento scelto per avvicinarsi, in quanto linguaggio che richiede di fare esperienza diretta dei luoghi, di annusarli, e che parallelamente permette di attivare l’immaginazione, stimolare nuove visioni capaci di andare oltre il ricordo. Si crea una relazione tra noi, dietro l’obiettivo, e l’oggetto inquadrato. Il censimento fotografico sta avendo in questi anni un riscontro davvero notevole in termini di partecipazione e anche di eterogeneità dei partecipanti. Sono arrivate centinaia di segnalazioni non solo dei fabbricati più noti - citiamo ad esempio l’ex Alumetal e l'ex Anmil a Rovereto, l’hotel Panorama di Sardagna, il Sanaclero ad Arco, la piscina di Revò e tanti altri - ma anche una costellazione di piccole abitazioni sparse su tutto il territorio, luoghi dove il tempo si è congelato lasciando solo polvere e ricordi.
La dimensione del fenomeno, l’estensione territoriale e le incredibili peculiarità architettoniche delle opere innescano solitamente tre tipi di atteggiamento sociale: indifferenza (ci si abitua fino a non accorgersene più, passano inosservate allo sguardo), sterile critica fine a se stessa (strumentalizzata spesso per fini personali e politici ma mai attiva nel proporre soluzioni) o romantica monumentalizzazione (alcuni oggetti architettonici diventano mausolei abbandonati a cui nessuno osa avvicinarsi più in nome di una santificazione a volte giustificata altre volte meno). Tutto questo genera stasi e perpetua un dolore. Da qui l’intento di affrontare un rituale laico (il censimento fotografico collettivo) per riuscire a fare pace con questa ferita del territorio, darle identità e dignità per potersi poi aprire ad un confronto creativo sul possibile futuro degli edifici in questione. La fascinazione che spesso suscitano questi edifici oltre che l’interesse, molto contemporaneo, di un loro possibile recupero o rifunzionalizzazione, rendono questa iniziativa l’occasione per conoscere, dialogare e allungare lo sguardo verso nuovi linguaggi possibili, ponendosi il quesito: ha senso costruire ancora prima di risanare?
Ancor prima di dare una risposta a questa domanda, che potrebbe declinarsi in maniera molto diversa a seconda dei casi, ci teniamo a sottolineare che la chiave vada ricercata sempre, a nostro avviso, nella partecipazione. È fondamentale che le persone siano partecipi e attive nel processo decisionale rispetto al futuro dei propri territori, intesi come bene comune di cui prendersi cura. La progettazione partecipata coinvolge diversi attori e soggetti della comunità, che sono chiamati a collaborare per affrontare una sfida complessa che includa i loro bisogni e aspettative reali e che sia in grado di dare vita a processi incrementali, capaci di innescare una trasformazione graduale ma sempre progressiva. Una metamorfosi culturale prima che architettonica. Tutto questo concorre alla crescita del senso di appartenenza ai luoghi, rafforzando il concetto di “comunità”. A partire da questo “sentire” è possibile attivare poi dinamiche decisionali che implichino l’attivazione di competenze specifiche in tema di urbanistica, architettura ma anche a livello economico e politico, alle quali è necessario dare fiducia e libertà espressiva ma alle quali si richiede anche coerenza e lealtà rispetto agli obiettivi condivisi.
(Roberta Re è ingegnere e una delle creatrici del progetto “Sedotti e abbandonati” - Nella foto, scattata dall'autrice, le ex Officine Galtarossa a Trento nord)