«Kit per il suicidio? Dimostra come la rete può essere “velenosa”». Parla l'esperta
Dopo il caso drammatico di una donna che si è tolta la vita in Valsugana, parla Wilma Di Napoli, responsabile del Centro di salute mentale di Trento e coordinatrice sanitaria del progetto di prevenzione Invito alla vita: «Triplicate le richieste di aiuto dai giovani»
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TRENTO. «Dopo 20 lunghi anni di dolore cronico, per insonnia, estrema solitudine, intolleranza ai rumori, mi sono procurata le cose necessarie online, ordinandole all’estero, più di un anno fa. Molti anni fa ho cominciato a fare ricerche su internet per una morte pacifica. La vita a volte è ingiusta, così ora penso di aver diritto alla liberazione e alla pace».
Così scriveva ai parenti poco prima di morire l’insegnante residente in Valsugana che aveva acquistato il kit per suicidarsi in Canada. Parole che sembrano celare una richiesta di aiuto per un suicidio assistito.
Ne abbiamo parlato con Wilma Di Napoli, responsabile Centro di salute mentale di Trento e coordinatrice sanitaria del Progetto di prevenzione del suicidio “Invito alla vita”.
Dottoressa Di Napoli, cosa ha pensato quando ha saputo di questo suicidio, del kit?
Ho pensato a quanto la rete a volte può essere velenosa. Era capitato un’altra vota ad un nostro utente che aveva consultato un sito e al quale era stato inviato un libro sulle modalità suicidarie. La rete è semplice da utilizzare e purtroppo fornisce tante informazioni.
Quindi il kit è l’ennesimo aiuto che la rete offre in questo campo?
É l’ennesima conferma di come la rete può essere uno strumento molto utile e valido, ma anche amplificatore di modalità rischiose e pericolose.
In questo caso il kit è diventato quasi un sostituto del suicidio assistito.
In questo caso sì. É stato come dire: non mi aiutate voi, faccio da me. E su questo forse si dovrebbe aprire un altro dibattito che c’entra relativamente con quello di cui ci occupiamo. Forse è vero che in situazioni di grande sofferenza, i malati vengono lasciati soli. In questo caso non è chiaro se, una presa in cura delle difficoltà emotive, avrebbe aiutato.
Durante la pandemia Covid si era registrato un forte aumento di suicidi. A distanza di tempo ora come è la situazione?
L’impressione è che ci sia stato un forte aumento nella prima metà del 2022 e che poi i numeri si siano assestati. Nel primo trimestre del 2023 i numeri non sono belli, ma sono in linea con quelli degli ultimi anni pre-Covid. Si tratta comunque di dati ufficiosi che arrivano dal Commissariato del Governo e che potrebbero essere inferiori rispetto a quelli delle schede Istat.
Dal lavoro sul territorio cosa emerge?
La sensazione che abbiamo è che ci sia un aumento delle richieste per un disagio che molto spesso si connota anche con idee di morte e autolesionismo. C’è un aumento forte di richieste di aiuto soprattutto tra i giovanissimi, anche tre volte di più rispetto al passato. Poi se guardiamo invece i dati dei suicidi che arrivano dal commissariato il fenomeno riguarda soprattutto gli over 70, specie nella zona di Trento. Fenomeno probabilmente legato all’invecchiamento della popolazione che si è acuito dopo il Covid.
Nel caso degli adulti è spesso la malattia la molla che fa pensare al suicidio come soluzione?
Nell’anziano la malattia cronica e l’invalidità sono fattori di rischio importanti per sviluppare un’ideazione suicidaria. Nell’età giovanile, invece, il disagio è legato all’utilizzo di sostanze, a disregolazione emotiva, senso di vuoto, problematiche da abuso di social, internet e gioco. I ragazzi non riescono ad avere un equilibrio, hanno un forte vuoto dentro, fanno fatica a dare un nome alle emozioni e stanno male. E il pensiero di morte emerge spesso.
Da sempre l’adolescenza è il periodo delle grandi domande e delle grandi insicurezze. Da qui a pensare alla morte però il passo non dovrebbe essere così breve.
Una volta infatti non era così frequente mentre oggi lo senti dire praticamente da tutti. Tutti lo hanno in mente. Chi fa gesti autolesionistici, chi mette atto tentativi di suicidio, chi semplicemente lo pensa.
E quindi cosa fanno i servizi per arginare questo fenomeno?
Si stano modulando perché l’utenza sta cambiando. Si cerca di offrire sempre più anche un rapporto relazionale. Noi abbiamo tanti operatori che prima lavoravano con attività riabilitative di gruppo e ora mettono in campo attività più mirate e individuali per creare una relazione che tenga. La sfida sarà costruire altro, perché i giovani in difficoltà sono davvero tanti.