Cannes, Isabelle Huppert fotografa di guerra nel film «Louder than Bombs»
Più forte delle bombe cosa c’è? L’estraniamento di una vita normale, un marito, due figli, tornare e pensare subito a ripartire con quel mestiere divorante e urgente di fotografare la guerra. Il giovane regista norvegese Joaquim Trier, che si era fatto notare con «Oslo, 31 august», a Cannes nel 2011, porta in concorso «Louder than Bombs», con Isabelle Huppert nei panni di una fotografa di guerra.
Il film, in cui compare anche Rachel Brosnahan, uscirà in sala da Teodora, intanto al festival ha diviso i critici.
Con la Huppert c’è Gabriel Byrne, il marito, professore di liceo, silenzioso premuroso mammo dei due figli durante le lunghe assenze della moglie.
Una madre così importante - le sue foto e il suo reportage sulle vittime civili in Iraq sono in prima pagina sul New York times - e così assente mette a dura prova ragazzi e famiglia ma quando in quello che sembra un banale incidente d’auto Isabelle muore, per il figlio adolescente Conrad (il bravo debuttante Devin Druin) è un dolore forte che lo fa chiudere in se stesso rifiutando il contatto con il padre, mentre il maggiore Jonah (Jesse Eisenberg) appena diventato papà decide di tornare nella casa di famiglia per riallacciare il filo dei ricordi. Via via emergono i particolari della vita di Isabelle, e anche della relazione con un collega, un amore legato esclusivamente ai viaggi nei posti di guerra, tornati a New York neppure si frequentavano. E non solo questo...
«Louder than Bombs» diventa così «un’esplorazione nell’intimità, nei segreti di una famiglia, nei non detti, nei sensi di colpa, in quel che resta quando si va oltre le apparenze, nella tristezza dell’adolescenza».
La Huppert, che al festival ha altri due film («The valley of love», dove duetta con Gerard Depardieu, e «Asphalte»), racconta di aver «conosciuto Trier al festival di Stoccolma e di averlo apprezzato in “Oslo, 31 august”. È un grande regista nella messa in scena, farà strada. Sono onorata di aver fatto questo film».
È un «coro di voci questa storia familiare che - spiega il regista - può portare il pubblico a riconoscersi. Le stesse domande che si fa Isabelle, sulla vita, sul perchè si parte sono comuni». La Huppert dice che oltre alla storia, «l’idea che il lavoro divenga paradossalmente rifugio», era l’impianto produttivo del film ad interessarla: «la produzione è europea, francese, danese, norvegese, abbiamo girato a New York e gli attori erano europei e americani. Un’esperienza che non capita spesso».