Cecchetto: «Città non sia una sommatoria di case»
Tornare a un'etica dell'architettura che unisca l'ambiente e la città, sperimentare senza ritrosie conservatrici, viaggiare e usare meno Facebook. Alberto Cecchetto - architetto veneziano, 68 anni, da anni docente di progettazione urbanistica all'Università Iuav di Venezia, ampia produzione scientifica e numerosi premi internazionali - sarà al Mart questa sera alle 18 per parlare di «Progettare i luoghi», con una rassegna dei suoi lavori trentini. In provincia infatti Cecchetto ha trovato una piccola patria professionale, autore di svariate opere, apprezzate, ammirate, contestate.
Come l'ultimo disegno, quello per la demolizione e ricostruzione della gelateria «Punta Lido» di Riva del Garda, aspramente criticato per lo stile che secondo alcuni contrasta con il paesaggio e la storia rivana.
Di questo, però, preferisce non parlare.
«No. Uno, perché sono sicuro sarebbe un bellissimo progetto, due, perché è diventato uno psicodramma e non ho voglia di entrare in questi meccanismi. L'architettura è una cosa seria, ma poi diventa una strumentalizzazione politica, gioco a scacchi tra le parti».
Perché un tale psicodramma?
Lo ho imparato a 35 anni, con il progetto della mensa del Santa Chiara a Trento, credevo di essere immune alle critiche feroci. Il mio mestiere è fatto così. Mentre a un medico nessuno va a dire dove si taglia la pancia, alcuni credono che in questo caso si possa fare, magari attraverso un mi piace o un non mi piace di Facebook. Penso che invece per tagliare la pancia al proprio figlio uno cerchi qualcuno che abbia esperienza, che abbia fatto qualcosa nella vita. Non gli importa di fare un'assemblea tra gli infermieri o via internet per decidere cosa fare. Nell'architettura vige la regola di Facebook, mi piace o no. È vero che è giusto esprimere il proprio parere, ma se chiedessi che architettura contemporanea andrebbe fatta lì, cosa risponderebbe? Basterebbe che la gente viaggiasse e vedesse cosa hanno fatto altrove, a Lucerna, ad esempio, al Museo della Musica, straordinario. Non avere cultura di ciò è terribile, l'unica via è il «resti tutto com'è».
I trentini, popolo di conservatori?
L'idea della conservazione è nata legittimamente perché abbiamo fatto tante brutture. E quindi capisco insicurezze e il dubbio, che è segno di intelligenza. Ma quando il dubbio diventa impotenza, l'unica strada possibile diventa quella della conservazione, oppure peggio, l'imitazione dell'antico, che significa incapacità di governare processi tecnologici e ambientali. E io sono nato ambientalista: volevo dimostrare che il verde e l'architettura non erano nemici.
Come andò?
Per mille anni l'architettura era nobilmente cosciente del paesaggio e dell'ambiente. Leon Battista Alberti scrisse pagine sull'attenzione alla luce, al vento, al contesto dei luoghi. Ancora oggi le architetture rurali e i centri storici ci mostrano come dovremmo lavorare. Per il progetto della mensa di Trento, ed esempio, capì che i miei alleati teorici in difesa dell'ambiente avevano considerato che l'ambiente fosse intoccabile, mentre la città doveva essere un posto dove si possono fare le lottizzazioni più ignobili. Il bello resti con il bello, il brutto con il brutto. Perché non nascono comitati contro i condomini? Perché nessuno protesta? Perché la banalità, purtroppo, va bene.
A che punto è la sperimentazione in campo architettonico in Trentino?
L'Alto Adige è più avanzato, c'è una dimensione sperimentale più forte, nonostante il netto attaccamento alle proprie identità locali. Ma lì riescono a tradurre questo orgoglio identitario in orgoglio della sperimentazione. Purtroppo con le ultime vicende rivane, vedo che c'è un arretramento culturale, almeno tra quelli che scrivono e quelli che protestano, ma sono certo che ci siano atteggiamenti anche positivi, spero, nei giovani, ché non perdano la voglia di sperimentare.
Com'è cambiata l'architettura rispetto alla sperimentazione, negli ultimi anni?
È passata la fase delle regole fisse e delle finestre quadrate, il formalismo, è passata la fase dell'eccezionalità, in cui gli edifici dovevano trasmettere messaggi globali legati all'effetto, ora bisogna tornare ad architetture più semplici e pensate. Lo sbaglio è vedere l'architettura come il design: un edificio non lo sposti come un telefonino o una sedia, per questo un'architettura in Puglia dev'essere diversa rispetto al Trentino, le architetture rurali erano chiare, esprimevano bene i principi di un ambiente. Si dovrà ritrovare un'etica, utilizzare i materiali e le forme in modo appropriato rispetto al luogo.
E l'urbanistica?
L'urbanistica deve cambiare perchè è cambiata la città. L'urbanistica non ne è ancora completamente cosciente ma forse il più grande cambiamento sarà quello della progettazione degli insiemi. Lottizzare in aperta campagna è molto facile, non serve competenza urbanistica, questo è stato un disastro. Non è più periferia, cos'è? È una conurbazione lineare, ma non si è più riusciti a gestire queste aree. La città contemporanea mi sembra in crisi. Non ha espresso modelli significativi rispetto alla città antica, oltre ai marciapiedi non ha aree pedonali a parte i centri commerciali. Non è riuscita ad esprimere continuità: le città antiche avevano porticati continui, belli anche se i proprietari erano diversi. Oggi non si riesce quasi neanche a fare un marciapiede o una pista ciclabile continui.
Un problema di convivenza?
Tante cose. Diciamo che la sommatoria di case non fa una città, deve esprimere un valore proprio. Lo strumento del piano regolatore non serve più a niente, ha dimostrato la sua incapacità di governare la qualità, dichiarare solo metri cubi fa solo male. L'urbanistica va strutturalmente cambiata, bisogna diventare più sensibili, più attenti. Meno facebook, più guardare e viaggiare. Siamo impigriti. Ma confido nei giovani, stanno girando l'Europa, anche i giovani architetti. Saranno loro a prendere in mano la situazione.