Roger Waters, l'atteso ritorno è un inno alla compassione
Un inno contro l'indifferenza, una denuncia feroce dei mali del mondo contemporaneo: in questo modo, 25 anni dopo l'album Amused to Death e 12 anni dopo l'opera Ça Ira, Roger Waters interrompe un lungo silenzio creativo con il disco Is This The Life We Really Want?, in uscita il 2 giugno.
Abbracciando formule e temi a lungo seguiti nei Pink Floyd o da solista, il leggendario cantante e musicista inglese porta un nuovo respiro nella sua scrittura asciutta, poderosa e teatrale con il contributo di un produttore-simbolo del rock degli ultimi 20 anni come Nigel Godrich (Radiohead, Beck, Paul McCartney). E l'album suona davvero come un attestato di rilevanza del rock nella scena musicale e culturale dei tardi anni Dieci, compiuto attraverso il più intenso e diretto attacco contro l'era dei Donald Trump e della Brexit sferrato fino ad ora da un artista di questo calibro.
In particolare il presidente degli Stati Uniti è bersaglio esplicito, evocato tramite frammenti di suoi stessi discorsi e in molti versi: "un leader senza cervello", lo definisce il cantautore nell'inquietante sovrapposizione tra distopia e attualità di 'Picture That'; e ancora, "stupido" ('nincompoop') tra le righe dello shuffle elettrico e blueseggiante della title-track. Proprio in 'Is This The Life We Really Want?' Waters svolge i temi del concept album, denunciando gli abusi dell'umanità - dalle violenze ai danni di donne, stranieri e giornalisti fino al riscaldamento globale - e invocando un disperato bisogno di compassione reciproca.
E se in alcune tracce, come il primo singolo 'Smell the Roses', questa disperazione si traduce nella ferocia funkeggiante e dissidente memore di classici floydiani come 'Welcome to the Machine' e 'Pigs (Three Different Ones)', il disco sa dosare il rock più caustico in una più ampia elegia funebre del nostro tempo, cantata sopra pianoforti e chitarre riverberanti e su tempi compassati. Lo si evince dalle molte ballate commosse in cui la dimensione personale (più evidente in tracce come 'Wait For Her', ispirata al poeta palestinese Mahmoud Darwish) è intrisa di impegno antibellico e umanitario: come 'Déjà Vu', che riprendendo un tema di 'Pigs on the Wing' apre il disco su un melodramma esistenzialista e politico, tra l'indifferenza dei droni e la nostalgia d'amore; o 'The Last Refugee', che narrando lo spaesamento abissale e terrificante dei migranti in fuga allude a immagini indelebili come quella del piccolo Alan Kurdi annegato al largo della Turchia nel 2015.
O ancora 'Broken Bones', ideale seguito di 'Mother' in cui tra chitarre malinconiche e violoncelli minacciosi quel senso di impotenza personale, che Waters narrava allora rievocando il trauma della morte del padre nella Seconda Guerra Mondiale, si trasforma nello smarrimento indignato di un'intera umanità orfana: "Non possiamo tornare indietro nel tempo - dice il cantautore a un mondo che ha abbandonato la Signora Libertà per seguire il sogno americano - ma possiamo dirvi fanculo, non ascolteremo le vostre stronzate e menzogne". Eppure nelle vene dell'album più dell'ira scorre l'empatia, merito dei molti suoni e sentimenti uniti in un solo respiro da dodici tracce poetiche e palpitanti: quel battito cardiaco, reminescente dell'incipit di 'Dark Side of the Moon', che apre il disco suona allora come metaforico promemoria dell'umanità