Premio Nobel: «Speriamo in più donne eccellenti»
«Nel futuro spero di vedere più donne ricevere il Nobel per la Pace. Non per una forzatura, i premiati devono essere eccellenze nel loro operato. Ma perché spero che nei fatti le donne possano avere ruoli maggiori nella vita».
Camicia blu, capello cortissimo, appena il vezzo di un filo di rossetto, a parlare alla platea, quasi tutta maschile, dell’Accademia dei Lincei è Berit Reiss-Andersen, dal 2017 presidente del Comitato per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace. Una visita a Roma densa di appuntamenti («solo 10 minuti per le domande, perché poi la presidente ha altri impegni», si avvisa), a chiusura del ciclo di conferenze di donne insigni personalità che contribuiscono alla scienza e alla politica per lo sviluppo umano organizzato dai Lincei, in cui la Reiss-Andersen ha tenuto una lezione sui 116 anni di vita di quello che definisce «il più prestigioso premio al mondo, a dispetto anche delle controversie che talvolta lo hanno accompagnato».
Avvocatessa e politica laburista, norvegese (quello per la Pace è l’unico dei cinque Premi che deve essere assegnato da Commissione di 5 membri tutti norvegesi), procuratrice del distretto di polizia di Oslo negli anni ‘80, partner della DLA Piper, studio legale globale specializzato in questioni aziendali e crimini dei colletti bianchi, con oltre 100 casi discussi alla Corte Suprema, dal 2011 è in forze nel Comitato del Nobel.
«Dalla sua nascita ad oggi - racconta ripercorrendo la storia del Premio, sin dalla morte del fondatore, in solitudine nella casa di Sanremo nel 1896 - il Nobel per la Pace è andato solo 13 volte a una o più donne», nonostante, ricostruisce, proprio una donna, l’attivista Bertha von Suttner (premiata nel 1905), fosse tra le ispiratrici del fondatore (anche in Commissione, solo nel ‘49 la prima presenza femminile, Aase Lionaes).
Per il 2018 si è già a lavoro. Un primo incontro, da rigoroso calendario, si è tenuto a febbraio. A ottobre si avrà l’annuncio, a dicembre la consegna. «Ma al riguardo non posso davvero dire nulla. Nemmeno su cosa si discute. No - prosegue - non credo sia in atto la terza guerra mondiale. Viviamo un momento di conflitti frammentati, ma ‘guerra mondiale’ è una parola troppo forte».
Ma come si sceglie dunque a chi assegnare il Nobel per la Pace? «Noi siamo semplici esecutori di un testamento, è tutto scritto lì», spiega citando le indicazioni di Nobel.
«Deve essere un contemporaneo e questo complica il nostro lavoro, perché spesso i processi di pace richiedono tempo. E non deve riguardare una sola particolare area o nazione. Molti credono che noi viaggiamo in tutto il mondo, per osservare i conflitti: non viaggiamo per nulla. Abbiamo ricercatori che ci forniscono accuratissime relazioni».
E si scopre che anche un riconoscimento tanto rigoroso ha avuto le sue ‘tendenze’. Più concentrato sulle questioni giuridiche e sui movimenti internazionali nei primi 35 anni, per tre volte ha guardato alla questione apartheid, spesso si è occupato di grandi conflitti come il Vietnam con Kissinger e la guerra civile in Colombia con Juan Manuel Santos. Ha celebrato la nascita dell’Unione Europea e, nel caso di Gorbaciov, indicato «come si può utilizzare la politica per i processi di pace».
Un premio dunque d’auspicio o per un cambiamento raggiunto? «Sono accadute entrambe le cose», ricorda con l’assegnazione nel ‘94 ad Yasser Arafat, Shimon Peres e Yitzhak Rabin. «Ma è solo un premio, non può prevenire la guerra». Ci sono poi «i Nobel mancati, come al gigante della Pace Gandhi». Ma in nessun caso, neanche dopo le critiche al governo di Aung San Suu Kyi in Myanmar, «il Nobel può essere ritirato».