«Sulla mia pelle», il grido ovattato di un uomo solo
Sulla mia pelle non è uscito nelle sale trentine e di molte altre città. Non entriamo nel merito della polemica fra cinema e Netflix (che, fra l’altro, poteva essere quantomeno attutita con due date di uscita differenti, una per la sala e una per il piccolo schermo); tuttavia, questo film, visto da molti a casa, oltre che da 400 spettatori (non autorizzati) del centro sociale Bruno, merita sicuramente una recensione. Non era facile raccontare la storia di Stefano Cucchi, ma Alessio Cremonini fa una scelta autoriale netta e coraggiosa e la porta avanti con grande coerenza e sorprendente maestria.
«Sulla mia pelle» non è un film di beatificazione di Cucchi, non è nemmeno il film partigiano che cerca il consenso facile dello spettatore con scene forti di violenza o commozione. Cremonini lascia fuori tutto questo, non mostrandoci il pestaggio, né la battaglia legale successiva alla morte. Il film è costruito aderendo minuziosamente alle testimonianze raccolte e non abbandona mai il rigore della narrazione, anche nel mostrare il lato familiare. Lo stesso Cucchi è raccontato nelle sue ambiguità, senza nascondere nulla. Il film è di fatto il grido ovattato di un uomo che muore solo in una struttura pubblica, mentre sembra che nessuno se ne accorga o voglia vedere e chi vorrebbe aiutarlo non riesce ad avvicinarsi a lui.
Narrativamente impeccabile, nella sua sottrazione il film arriva allo stomaco, perché il taglio documentaristico riesce a dare luce al vero dramma, che è lì davanti ai nostri occhi e non fa sconti. E forse questo dramma di indifferenza e solitudine supera addirittura il tema più scomodo e non mostrato: quello del pestaggio a morte (ad oggi non ancora provato) da parte delle forze dell’ordine. Alessandro Borghi va al di là dell’interpretazione, donando a Cucchi corpo e anima, diventando quasi un tutt’uno con lui.