«Nomadland», un senso di vuoto
Quest'anno tutte le scadenze sono posticipate. Mentre i Golden Globe sono slittati al primo marzo, non abbiamo ancora le nomination agli Oscar (solo la preselezione in alcune categorie, fra cui la nostrana Laura Pausini per la miglior canzone). Questa settimana esce invece negli Usa il film assolutamente favorito, già trionfatore a Venezia, Nomadland della cinese (ma residente negli Stati Uniti) Chloé Zhao . Da noi dovrebbe arrivare, non si sa ancora dove, il 4 marzo.
Al suo terzo lungometraggio, la regista prosegue coerentemente le sue indagini antropologiche e visive sospese fra finzione e documentario, addentrandosi nel mondo degli odierni nomadi statunitensi, vittime del capitalismo che non possono più permettersi una casa e sono costretti a vivere sulla strada. Un film potente e delicato, in cui lo spettatore riesce a sentire lo smarrimento e la solitudine di queste persone, rimaste come biglie sparse, pedine private del proprio contesto sociale e umano, ridotte a vagare in quella terra di nessuno, che è il confine fra benessere e disperazione o, come dice la protagonista, fra essere "houseless" e essere "homeless".
Un ritratto intenso, dignitoso e privo di qualsiasi retorica, forte dell'ottima interpretazione di Frances McDormand (foto) . Dignità e solitudine, mai rese così bene. Dietro, ovviamente, c'è tutta la letteratura americana e il cinema, da Steinbeck a McCarthy, dal Western a «Una storia vera» di Lynch (forse il più vicino). Ed è su questo secondo punto che il film ha il suo lato debole. Con una sceneggiatura vera e propria, il film avrebbe potuto dare al piano individuale una dimensione collettiva e politica. Se i nomadi di Furore viaggiavano verso il sogno americano e la California, qui c'è solo un enorme senso di vuoto nelle macerie dell'impero americano (su cui ancora non era neppure piombata la pandemia). Ma questo resta in sottofondo.