Giorno della memoria: ricordare le responsabilità per ripetere "mai più". La vicenda trentina delle giovani partigiane Ora e Veglia, vittime anche di soldati conterranei
L'orrore dell'Olocausto, lo sterminio degli ebrei e di altre categorie sociali o politiche condannate da nazisti e fascisti: le storie di quei giovanissimi che ottant'anni fa ebbero il coraggio di schierarsi dall'altra parte e di rischiare la vita per fermare le ideologie di morte. La pagina dolorosa di una gioventù dilaniata e il caso degli arruolati localmente dai nazisti
IL RACCONTO Liliana Manfredi: quel giorno i nazisti sterminarono la mia famiglia, io "graziata" da quel soldato
LA MOSTRA Almeno i nomi (e i volti), in ricordo dei civili trentini deportati nei lager nazisti
TRENTO. Oggi si celebra il Giorno della memoria. Ricordiamo con commozione e rabbia le vittime dell'Olocausto il 27 gennaio, il giorno che nel 1945 vide le truppe russe liberare il campo di sterminio di Auschwitz.
Furono i primi sguardi diretti sull'orrore dell'eliminazione degli ebrei e di persone appartenenti ad altre categorie che per i nazisti andavano cancellate: oppositori politici, minoranze etniche quali sinti e rom, omosessuali, disabili, gruppi religiosi come i testimoni di Geova, afroeuropei, cittadini slavi delle aree occupate dal Reich.
L'Italia fascista aveva contribuito autonomamente e con convinzione alla macchina dello sterminio nazista.
Lo aveva fatto sul piano ideologico ispirando le discriminazioni e persecuzioni, poi su quello normativo con le leggi razziali del 1938 che esclusero gli ebrei dalla vita civile esponendoli a una serie di vessazioni, compresi i divieti di frequentare le scuole pubbliche o di lavorarci come docenti. Nel silenzio dei più. Anzi, ci fu chi approfittò spudoratamente della brutalità del regime occupando i posti di lavoro sottratti per legge agli ebrei.
Quelle leggi furono l'anticamera delle deportazioni per le quali il fascismo si attrezzò fin dall'autunno1940, istituendo i primi campi di concentramento, dove inizialmente furono rinchiusi ebrei, oppositori politici, cittadini di Paesi nemici, zingari. Le più recenti ricerche hanno censito oltre duecento luoghi di deportazione fascisti istituiti quasi in tutta Italia dal 1940.
Dall'autunno 1943 e fino alla conclusione della guerra, quattro lager italiani divennero poi snodi diretti delle deportazioni verso i campi di sterminio nazisti in Europa: Fossoli (Carpi), Bolzano, Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Grosseto. A Trieste, il Reich costruì un campo di sterminio nella Risiera di San Sabba: vi furono uccise e cremate oltre 5 mila persone.
Anche nella zona dolomitica vi furono persecuzioni fasciste e naziste e tragiche deportazioni degli ebrei e di altre categorie sociali, sullo sfondo di uno scenario via via sempre più cupo e doloroso per le popolazioni, specie in alcune comunità alpine. E intanto molti giovani erano stati spediti in guerra, spesso a morire in Russia o altrove. Dopo l'armistizio una parte di loro tornò, molti alpini si unirono alla Resistenza sui monti.
Il Giorno della memoria può essere un'occasione preziosa, dunque, anche di rileggere le pagine tragiche e spesso scomode delle vicende storiche locali, specie per quanto riguarda il periodo successivo all'8 settembre 1943 e fino alla conclusione del sanguinoso conflitto mondiale.
In questa fase storica il Trentino, insieme alle altre due province dolomitiche di Bolzano e Belluno, rimase escluso dalla repubblica Sociale (guidata da Mussolini su mandato tedesco) e fu inglobato da Hitler in una speciale area amministrativa affidata al controllo dei gerarchi nazisti del Tirolo.
Si chiamava Zona di operazioni delle Prealpi (Operationszone Alpenvorland) e aveva sostanzialmente il duplice scopo di assecondare le mire espansionistiche verso sud dei nazisti tirolesi e di creare una fascia cuscinetto che avrebbe potuto costituire un corridoio per le operazioni belliche del Reich (compresa l'eventuale ritirata, come poi avvenne nella primavera 1945).
Le caratteristiche di questa zona erano piuttosto ben definite, dal punto di vista degli occupanti.
In Trentino un quadro non particolarmente preoccupante, dopo la eliminazione, quasi sul nascere, della Resistenza organizzata.
Nel Bellunese un contesto rischioso, con una precoce e diffusa presenza di partigiani, alimentata poi anche dai rinforzi arrivati da Bologna per volere del partito comunista.
In Sudtirolo poca fatica a prendere il controllo, tanto che a Bolzano, nel 1944, si istituirà anche un lager, dotato pure di campi satelliti: dei circa 10 mila detenuti, 3.500 furono poi trasferiti nei campi di sterminio.
Si trattava principalmente di oppositori politici e di partigiani, oltre a ebrei e a una quota minoritaria composta di disertori sudtirolesi sfuggiti all'arruolamento nazista, rom, sinti e testimoni di Geova.
Mille deportati al lager di via Resia o nei vari sottocampi erano stati arrestati proprio nella vicina provincia di Belluno, dove fin dall'estate era stata organizzata la Resistenza, che si giovava anche di una vasta rete di sostegno popolare, alimentata anche dalla profonda ostilità verso i tedeschi (il territorio aveva già subito una dolorosa occupazione austro-ungarica durante la Prima guerra mondiale, un peirodo eloquentemente passato alla storia come "l'an de la fam").
Dopo la costituzione dei primi nuclei armati nell'ottobre 1943, fu nella primavera seguente che il movimento di liberazione fece un salto di qualità nel Bellunese: epicentro delle attività in quella fase erano le Vette Feltrine, proprio a ridosso del confine con il Trentino, dove operava la brigata garibaldina Gramsci (si stima che nel momento di massimo fulgore potesse contare su quasi 2 mila partigiani e staffette).
Dalle montagne bellunesi partivano così missioni di sabotaggio che arrivavano fino alla pianura o alla laguna veneta, per disturbare la macchina bellica del Reich, impegnata più a Sud nello scontro con gli Alleati.
Azioni importanti furono messe a segno anche in Valsugana, con danni alla linea ferroviaria, e a centrali elettriche, come quella delle Moline, situata nel Bellunese, nella valle dello Schener, al confine con Trento (oggi è gestita da Primiero Energia).
Verso la fine dell'estate 1944 i nazisti decisero di potenziare la repressione: la Resistenza in quella provincia ribelle dava troppo fastidio.
Cominciarono così in provincia di Belluno mesi tragici, costellati di lutti: rastrellamenti, arresti, deportazioni, impiccagioni, fucilazioni, incendi di interi paesi.
Uno degli episodi più drammatici avvenne in valle del Biois, nella zona di Falcade e di Canale d'Agordo, a ridosso del confine trentino, tra la mattina del 20 e la sera del 21 agosto 1944: furono uccisi 37 civili e otto partigiani in combattimento, numerosi paesi vennero incendiati (245 abitazioni bruciate, 645 persone rimaste senza tetto), molti abitanti furono sottoposti a torture e deportazioni.
Le truppe naziste che agirono in valle del Biois arrivarono per lo più dal Trentino: dall’altopiano delle Pale giù in val di Gares e dai passi Valles e San Pellegrino verso Falcade.
L'azione fu condotta dalla divisione corazzata paracadutisti Hermann Göring, dalla Scuola d'alta montagna delle Waffen-Ss di Predazzo e dal famigerato Secondo battaglione del Polizeiregiment "Bozen", coadiuvati da diverse compagnie del Corpo di sicurezza trentino (Cst).
Quest'ultimo era una milizia reclutata forzosamente (con minacce alle famiglie) in provincia di Trento dai nazisti (circa 3.200 mila effettivi, si ha notizia di alcune decine di disertori), parimenti in Alto Adige, mentre nel Bellunese la costituzione di questo corpo di polizia fallì perché i giovani si resero irreperibili e in gran parte raggiunsero invece le formazioni partigiane sulle montagne (a quanto si sa, i pochi reclutati erano residenti nelle zone ex asburgiche, Ampezzo e Fodom, e furono inquadrati fra gli altoatesini).
Esisteva anche un'attività di sabotaggio all'interno degli uffici municipali e postali bellunesi: le cartoline precetto preparate dai nazisti venivano spesso distrutte prima dell'invio.
I due corpi di sicurezza istituiti in Alto Adige e in Trentino originariamente avrebbero dovuto svolgere funzioni di polizia locale, in realtà furono presenti in altre attività di repressione in provincia di Belluno (e anche sull'altopiano di Asiago e dintorni), specie le milizie sudtirolesi del Polizeiregiment "Bozen" affiancarono di frequente e attivamente i militari tedeschi.
Alla fine dalla guerra la piccola provincia dolomitica, meno di 200 mila abitanti, era devastata: la motivazione del conferimento della medaglia d'oro per la Resistenza ricorda che Belluno pagò con 564 caduti in combattimento (in gran parte ragazzi), 86 impiccati, 227 fucilati, sette arsi vivi, undici morti a seguito di tortura e sevizia, 301 feriti, 1667 deportati nei lager, oltre a 7000 militari deportati nei lager in Germania dopo l’8 settembre '43. Furono venti mesi di terrore.
Fra le vittime dei nazisti a Belluno figura anche il medico Mario Pasi, ravennate, dirigente comunista, che nel 1937 arrivò a Trento e lavorò all'ospedale Santa Chiara.
Poi, date le difficoltà a organizzare la Resistenza in Trentino, alla fine del 1943 si spostò nel Bellunese dove fu tra i protagonisti della lotta di liberazione e assunse anche il ruolo di commissario del comando di zona del Comitato di liberazione nazionale.
Ma un anno più tardi venne catturato (tradito da una delazione: c'erano pure le spie, i fascisti irriducibili) e fu tra i numerosi detenuti politici rinchiusi e seviziati nella caserma Tasso di Belluno, che era la sede della Gestapo, guidata dal famigerato tenente Georg Karl (uno dei numerosi criminali dei quali si sono perse le tracce dopo la guerra).
Pasi, nome di battaglia Montagna, fu sottoposto a torture continue ma non rivelò informazioni che avrebbero potuto compromettere la rete della Resistenza bellunese.
Il 10 marzo 1945, moribondo, fu impiccato insieme a altri nove partigiani sulla collina del Bosco delle Castagne, sopra la città, in una delle innumerevoli azioni terroristiche messe in atto dagli occupanti.
In quel caso si trattò della risposta a un attentato al vicino poligono di tiro nel quale rimasero uccisi due o tre militari sudtirolesi: l'esecuzione dei prigionieri, compreso Pasi, fu affidata al Secondo battaglione del Polizeiregiment Bozen (il cui comandante chiese ma non ottenne ben 50 prigionieri da impiccare per rappresaglia, Karl gliene concesse dieci).
I destini di giovani cresciuti sulle Dolomiti si intrecciarono tragicamente, su barricate opposte, in molte altre occasioni.
Anche quando, nell'estate 1944, i nazisti decisero di sgominare la brigata Gramsci dalle Vette Feltrine, dove ormai era considerata un pericolo troppo serio.
Nei mesi precedenti i partigiani avevano tentato più volte di estendere la loro presenza al Trentino, vi furono missioni e contatti anche nel capoluogo alla ricerca di appoggi solidi, ma non andarono a buon fine.
Nel giugno 1944 furono invece proprio dei giovani trentini, tutti provenienti dal confinante Tesino, a recarsi a piedi al comando partigiano sulle Vette Feltrine: erano decisi a costituire un nucleo di Resistenza anche sulle proprie montagne.
E così fu: nacque il battaglione Gherlenda, composto di bellunesi (sganciati dalla brigata Gramsci) e di trentini, ragazzi e ragazze giovanissime.
Fu una vicenda breve, eroica e tragica. Commovente, forse folle; ma per inseguire l'idea giusta.
E anche in questo caso è una storia che si intreccia con le scelte di giovani provenienti dalla stessa terra: a dare la caccia ai ragazzi del battaglione Gherlenda erano spesso altri giovani trentini che indossavano la divisa del Cst.
Nella settimana della memoria sarebbe prezioso anche riflettere su queste dinamiche spaventose: com'è potuto accadere. Come assicurarci che non succeda mai più? Dov'era finita l'umanità?
Anche il "Gherlenda", dunque, fu colpito della violenta repressione scatenata dai nazisti contro i partigiani, tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno 1944.
Il battaglione fu smembrato e fra i morti di quel periodo ci fu la non ancora ventenne Clorinda Menguzzato "Veglia", catturata l'8 ottobre 1944 da una pattuglia del Corpo di sicurezza trentino, presso Celado, mentre si stava spostando verso un rifugio più sicuro in compagnia del vicecomandante del Gherlenda, il bellunese Gastone Velo "Nazzari" (che sarà ucciso).
All'indomani centinaia di miliziani del Cst occuparono fisicamente Castello Tesino, mentre in caserma la giovane partigiana veniva interrogata, seviziata, azzannata dai cani e violentata dai soldati: non parlò e il 10 ottobre la fucilarono.
Il suo corpo fu gettato impietosamente in una scarpata sotto la curva nei pressi di villa Daziaro (Pieve Tesino), dove solo da pochi anni è stata posta una targa in ricordo della coraggiosa ragazza.
Il cadavere straziato di Veglia fu recuperato dalle donne del luogo, che lo vestirono con il costume tradizionale, quasi a sfidare i nazisti e le loro indicibili crudeltà.
In quei giorni da Castello Tesino fu arrestato anche un sacerdote, don Narciso Sordo, accusato di aiutare i partigiani.
Fu poi rilasciato ma un mese più tardi i nazisti lo fermarono definitivamente: imprigionato dapprima a Roncegno (nella famigerata Villa Triste), fu trasferito al campo di Bolzano e dopo interrogatori e torture venne portato al campo di sterminio di Mauthausen (Austria) all'inizio del 1945, morì di stenti nel sottocampo di Gusen II il 13 marzo del 1945.
Invece l'amica di Veglia, la più giovane Ancilla Marighetto "Ora", proseguì la lotta con un gruppetto residuo di partigiani trentini e bellunesi che nell'autunno-inverno riuscì a nascondersi sui monti fra Costabrunella, il passo Brocon e il monte Coppolo.
Fino a quel tragico 19 febbraio 1945, quando fu uccisa dopo un inseguimento da parte di una pattuglia del Corpo di sicurezza trentino comandata dal capitano Ss tirolese Karl Julius Hegenbart.
Ora aveva soltanto 18 anni
Queste due giovani senza paura, rappresentanti della meglio gioventù dell'epoca, sono due figure emblematiche da ricordare nella Giorno della memoria.
Da ricordare per la generosità e la forza con cui si sono spese totalmente per una causa giusta: sconfiggere il nazifascismo e dire no per sempre a ideologie di morte che hanno generato il totalitarismo, l'orrore della Shoah, le deportazioni, lo sterminio di comunità religiose, culturali, politiche.
È doloroso sapere che altri giovani che parlavano il loro stesso dialetto sono stati gli aguzzini di queste due ragazze (e di molte altre persone).
Doloroso al punto da rimanere una ferita aperta, una pagina non del tutto esplorata della memoria collettiva locale.
Si può riflettere, confrontarsi, dialogare anche in cammino.
Ecco, quando incrociamo, oggi, nel 2022, lo sguardo di un ragazzino o di una giovane di 18 anni, interroghiamoci sulle scelte e sulle gesta dei loro coetanei di oltre settanta anni fa. Ci sarà d'aiuto a vivere insieme.