L'universo tutto da ridere dei millennials raccontato da Giorgia Fumo in "Vita bassa"
il 22 febbraio all'Auditorium S.Chiara di Trento
TRENTO. Giorgia Fumo, una delle rivelazioni nel mondo della stand up comedy, esordisce con un nuovo tour nei teatri italiani. L’artista romana sarà all’Auditorium S. Chiara con “Vita bassa” il 22 febbraio alle 21 per raccontare un universo di originali mondi comici (Inizio ore 21; biglietti ancora disponibili).
Dopo il successo televisivo su Comedy Central Giorgia Fumo porta sul palcoscenico uno spassoso affresco contemporaneo offrendo al pubblico un mix di osservazioni acute e aneddoti esilaranti sulla generazione dei trentenni, ma non solo.
Giorgia Fumo, quasi inevitabile iniziare dal curioso titolo del suo show “Vita bassa”: cosa racchiude?
«Si ispira sia alla vita bassa dei jeans che avevamo noi millennials da adolescenti sia al fatto che la qualità della vita di chi oggi ha tra i trenta e i quarantacinque anni massimo è più bassa rispetto a quella dei nostri genitori perché, dopo che siamo diventati adulti, c’è stata una crisi dopo l’altra e anche cose normali come andare a vivere con qualcuno sembrano complicatissime. E’ questo il senso: è un confronto tra generazioni avendo come filone quello della “vita bassa”».
Lei dice che i millennials si trovano costretti a barcamenarsi con le briciole lasciate dai loro predecessori.
«Sì, e lo si comprende banalmente guardando la qualità dei contratti di lavoro, gli spazi che abbiamo a disposizione, i prezzi che rispetto ai nostri stipendi sono spaventosi. Le generazioni precedenti si sono un po’ “magnate tutto”- come si dice a Roma- dalle baby pensioni a una serie di cose che non sono più disponibili. Noi ci ricordiamo com’era essere figli di questa generazione, ma ci rendiamo conto che ora le cose sono cambiate e che non possiamo dare ai nostri figli quello che noi avevamo da piccoli».
Una generazione come altre che si confrontano con i social: ne parla in questo show?
«I social sono una parte importante della mia vita perché per anni ho fatto la consulente di marketing intelligence, cioè ho fatto analisi per grandi aziende su come le persone percepiscono i brand e gli eventi sui social. Per me è una grande fonte di informazione, ma ne parlo relativamente poco, altrimenti veniva fuori uno spettacolo di tre ore».
Come affronta il palco?
«Avendo fatto tanta improvvisazione sono tendenzialmente tranquilla. I primi tempi mi agitavo soprattutto perché avevo paura di dimenticare i pezzi. Ho ancora l’angoscia di scordare le cose, anche se le ho scritte io e se posso nei miei spettacoli inserisco sempre una parte improvvisata, perché mi dà tranquillità. Gli ultimi cinque minuti prima di salire sul palco ho un po’ di ansietta, ma poi, quando inizi a parlare, è proprio uno scambio di energia tra te e il pubblico e non te ne accorgi più e diventa solo bello».
Quanto è difficile oggi far ridere?
«Non credo che sia più difficile far ridere ora rispetto al passato: quando va tutto bene non c’è nemmeno così bisogno di ridere, quando invece le cose vanno male c’è un bisogno maggiore di tirarsi su e quindi lo sforzo comico ha più senso. Stiamo vivendo questo momento qui ed ora, non possiamo scegliere un altro oggi. Secondo me è bello e fa bene a tutti trovare qualcosa di divertente da dire, da ascoltare e da condividere. L’uomo ha sempre cercato qualcosa che faccia ridere gli altri perché credo sia insito nella natura umana».
Da dove nasce la sua passione per l’improvvisazione teatrale e per la stand-up comedy?
«Il ragazzo che insegnava con me improvvisazione teatrale aveva iniziato a fare il maestro di cerimonie, una sorta di presentatore nelle serate di stand-up comedy che avevano iniziato a comparire nella mia città e mi aveva invitato a salire sul palco in una serata aperta. Ho capito che mi piaceva molto poter dire quello che pensavo. Poi ho iniziato a vedere su Netflix degli speciali e ho pensato che era proprio quello che volevo fare. Avendo fatto spesso un lavoro corale in cui rimanevo un po’ dietro – perché facendo analisi per le aziende poi erano sempre altri che mettevano in pratica i piani e anche durante le improvvisazioni teatrali di solito si lavora in gruppo – io volevo avere la mia faccia sulle mie idee”.