Artigianato, in 5 anni perse ben 615 aziende
Sarà anche vero che si vedono segnali di ripresa, ma alcuni numeri pesano come macigni. Negli ultimi cinque anni in Italia si sono perse 75.500 imprese artigiane. Di esse, poco meno di 12.000 operavano nel ricco Triveneto. I numeri, presentati dalla Cgia di Mestre, mostrano come questo settore sia stato il più colpito dalla crisi economica dal 2008 a oggi. Le costruzioni, i trasporti e il manifatturiero sono stati i comparti che hanno segnato le performance più negative
TRENTO - Sarà anche vero che si vedono segnali di ripresa, ma alcuni numeri pesano come macigni. Negli ultimi cinque anni in Italia si sono perse 75.500 imprese artigiane. Di esse, poco meno di 12.000 operavano nel ricco Triveneto. I numeri, presentati dalla Cgia di Mestre, mostrano come questo settore sia stato il più colpito dalla crisi economica dal 2008 a oggi. Le costruzioni, i trasporti e il manifatturiero (metalmeccanica, tessile, abbigliamento e calzature) sono stati i comparti che hanno segnato le performance più negative.
La contrazione riguarda anche la nostra provincia. Certo, il Trentino può «esultare» se fa il confronto con, ad esempio, la provincia di Treviso per il rapporto fra imprese artigiane iscritte e cessate dal 2008 al 2013. All'ombra del Bondone, il saldo negativo è di 615 realtà. Nella terra del radicchio 2.187, il dato più alto di tutto il Nordest. Se però il confronto lo facciamo con i cugini altoatesini, la musica cambia. Nel giro di un lustro, in provincia di Bolzano, le attività artigiane presentano un saldo negativo di appena 29 imprese. Meglio del Trentino fanno inoltre Trieste (-79), Gorizia (-263), Belluno (-384), Pordenone (-462).
Una situazione che non sfugge al presidente di Assoartigiani Roberto De Laurentis , che evidenzia come il calo delle imprese «è dovuto principalmente alla crisi dell'edilizia. Lì si sono persi i numeri più consistenti, che possono essere riassunti in duemila occupati in meno visto che prima della crisi i lavoratori erano 7.800 e adesso sono meno di seimila».
Il dato delle 615 aziende perse è una cifra reale?
«Il numero torna anche a noi. Basti pensare che nel 2009 gli associati erano 10.350, ora sono 9.950. Fatte le proporzioni, è dunque una cifra reale».
Oltre alle costruzioni, gli altri settori negativi sono trasporti e manifatturiero. Anche per la nostra realtà?
«Sì, anche perché si è persa la vocazione al manifatturiero perché il costo del lavoro è molto alto. Si tende a puntare sui servizi dove servono meno capitali e dove l'entrata e uscita dal mondo del lavoro è più flessibile».
Da dove si deve iniziare per invertire la tendenza e ripartire?
«Il problema nasce dal cercare di creare occupazione e riportare le lavorazioni da noi. Finché il costo del lavoro sarà così spaventosamente alto non ci sarà possibilità di occupazione e non ci saranno margini per mettere persone nelle aziende. Non si può andare avanti con i piccoli contributi che arrivano dall'Europa. Come si può sperare che servano gli 8 milioni di euro stanziati per le piccole imprese che rappresentano lo 0,17% del bilancio? Bisogna puntare sulla produzione di beni durevoli. Di soli servizi si muore».
Riportare la produzione in Italia è però difficile.
«Le faccio un esempio. La Moldavia è a sole due ore di volo da qui. Un programmatore da noi percepisce 3 mila euro al mese. Lì dieci volte meno, 300 euro con 50 euro al mese di contributi».