Apertura degli impianti, ultima spiaggia il 25 gennaio: "Ma oltre quella data, non si fa niente"
Dalla Val di Fiemme a Campiglio, dall’Alpe Cimbra alla Val di Sole, si attende con trepidazione il nuovo confronto atteso per domani, mercoledì, all’interno della conferenza delle Regioni. Dopo che è tramontata l’ipotesi di riaprire dopo l’Epifania e la richiesta, da parte del Comitato tecnico scientifico, di migliorare le linee guida e i protocolli per la riapertura degli impianti da sci (mascherina ovunque, cabinovie e funivie al 50% di occupazione, skipass a numero chiuso), gli operatori trentini del settore stanno vivendo l’ennesimo momento di incertezza.
Tra la consapevolezza che l’intera stagione invernale 2020/2021 possa davvero restare un buco nero nella storia del turismo e la speranza di poter salvare almeno la seconda parte della stagione.
La data ipotizzata dall’assessore provinciale al turismo, Roberto Failoni, quella del 25 gennaio, è una sorta di ultima spiaggia. «Lunedì 25 gennaio o lunedì primo febbraio - osserva Tullio Serafini, presidente dell’Apt Campiglio-Rendena - poco cambia. Ma sarà davvero l’ultima possibilità di dare avvio alla stagione. La comunicazione che non si riaprirà nemmeno il 7 gennaio non è un fulmine a ciel sereno. In qualche modo ce lo aspettavamo. Il Cts (Comitato tecnico scientifico, ndr) non ha bocciato i protocolli preparati dalle regioni e dalle organizzazioni degli impiantisti, ma ha chiesto di affinarli. La nostra skiarea è già attrezzata in sicurezza, con skipass prenotabili e ingressi contingentati. I nostri operatori sono divisi tra lo scoramento nel veder slittare ancora in avanti la possibilità di cominciare a lavorare e la speranza di poter salvare almeno febbraio, con il carnevale, e marzo, fino a Pasqua. Se le regioni fossero aperte ma gli impianti chiusi, calcoliamo che salveremmo non più del 15-20% degli introiti. Anche molte seconde case in questi giorni sono vuote».
Una Pasqua che cadrà il 4 aprile, periodo ancora appetibile per le ultime sciate, se farà freddo. «Salvare la stagione da febbraio in poi, avendo già perso Immacolata, Natale e settimane bianche di gennaio - rileva Cristian Gasperi, general manager delle Funivie Folgarida Marilleva in Val di Sole - significa salvare almeno il 30-35% del fatturato. Darebbe un senso ai sacrifici fatti finora per contenere la pandemia. Che l’apertura al 7 gennaio slittasse, si era capito. Ne è conferma il fatto che prenotazioni non ne stavano arrivando. Per far partire lo sci ci vogliono le prenotazioni alberghiere. Il personale si trova, gli impianti si fanno ripartire, la neve naturale è abbondante, le piste si preparano. Ma servono gli sciatori. Serve che le regioni siano tutte gialle e che l’effetto vaccino abbia un traino positivo. Non disperiamo nemmeno di avere turisti dall’estero, ma sarà fondamentale capire quali saranno le regole: tamponi obbligatori? Quarantena appena arrivati? Chiaro che tutto questo lo renderebbe impossibile. Lo Skirama ha già le tecnologie per contingentare gli ingressi. Dobbiamo capire di quali numeri si parla».
«Siamo fiduciosi e non perdiamo la speranza» commenta da Cavalese Giancarlo Cescatti, direttore dell’Apt Val di Fiemme: «In una stagione così complicata servirebbe avere date certe - spiega - perché i servizi fondamentali intorno allo sci non si possono improvvisare. I nostri operatori hanno trascorso il primo Natale della loro vita in intimità. Lo hanno apprezzato, giocoforza. Ma il danno economico è enorme. Il 50% della nostra clientela arriva dall’estero. Sarebbe già tanto avere gli italiani a febbraio e marzo. Nei prossimi giorni qualche hotel lavorerà grazie agli atleti del Tour de ski, che sarà senza pubblico. A fine gennaio avremo la Marcialonga, da vedere se solo con gli italiani. Tra l’8 e il 20 dicembre avevamo messo in campo una bella proposta outdoor alternativa allo sci, che ha avuto un discreto riscontro. Ma, per poterla offrire, deve esserci mobilità tra regioni».
Meno ottimista Daniela Vecchiato, direttrice dell’Apt dell’Alpe Cimbra (Altipiani di Folgaria, Lavarone, Luserna): «Non esagero se dico che i nostri operatori sono alla disperazione - esordisce - per i mancati guadagni e per l’enorme incertezza che grava sui ristori e la possibilità di salvare almeno un pezzo di stagione. Sappiamo che non dipende dalla volontà della politica, ma dall’evolversi della pandemia. Lavorare almeno a febbraio e marzo è meglio di niente e sarebbe importante più dal punto di vista psicologico che economico. Ma mi sembra che le variabili siano ancora troppe. Come mondo della montagna, ci sentiamo sicuramente abbandonati e bistrattati».