Mihajlovic: Vukovar, i gol, la malattia, vita da guerriero
(ANSA) - ROMA, 16 DIC - La leucemia alla fine ha avuto la meglio su Sinisa Mihajlovic, strappandolo ai suoi cari dopo tre anni di lotta e sofferenza durante i quali il tecnico serbo non ha rinunciato al suo lavoro cercando di ricacciare indietro con la sua grande passione l'ombra che si allungava su di lui. Era stato lo stesso Mihajlovic, nel luglio 2019, a dare la notizia di aver contratto la malattia. Voleva prenderla di petto, nel suo stile diretto, incapace di nascondersi, che si trattasse di difendere l'adorata Serbia o un compagno di squadra. 'Io non gioco mai per non perdere, nel calcio come nella vita. Sconfiggero' il male - aveva detto l'allora tecnico del Bologna - e lo faro' per mia moglie, per la mia famiglia, per chi mi vuole bene'. A 53 anni - dopo alti e bassi, speranze di guarigione e ricadute - si e' dovuto arrendere, lasciando un vuoto in quanti lo hanno apprezzato come centrocampista e difensore di tante squadre - dalla Stella Rossa di Belgrado all'Inter - e poi sulle panchine di vari club italiani: la stessa Inter, Catania, Fiorentina, Milan, Torino, Sampdoria. Ha vestito anche le maglie di due nazionali: Jugoslavia, e Serbia-Montenegro. Nato a Vukovar, madre croata e padre serbo, Sinisa dopo aver vissuto gli orrori della guerra etnica si mette in luce con la Stella Rossa, vincendo la Coppa dei campioni a 22 anni. Attira l'attenzione con il suo potente sinistro, micidiale nei calci piazzati (28 le reti realizzate solo in serie A). Portato in Italia dalla Roma nel 1992, due anni dopo passa alla Sampdoria, dove diventa il pupillo del tecnico Sven Goran Eriksson che lo valorizza schierandolo al centro della difesa. Nel 1995 conosce la donna della sua vita, Arianna Rapaccioni, che sposa l'anno dopo e piu' di chiunque altro gli e' stata vicina durante la battaglia contro la malattia. Dalla loro unione sono nati sei figli. A giugno 2021 avevano festeggiato le nozze d'argento dicendosi nuovamente si', con una romantica cerimonia a Porto Cervo. Nel 1998 si trasferisce alla Lazio. Sono gli anni dell'ultimo conflitto balcanico e quando la Nato bombarda Belgrado, con gli aerei che partono dalle basi in Italia, Mihajlovic non nasconde l'orgoglio di essere serbo. Come non rinnega l'amicizia per Zeliko Raznjatovic, ex capo ultra' della Stella Rossa, meglio noto come il comandante Arkan. Con il connazionale Dejan Stankovic, nel maggio del 1999, a Udine gioca con il lutto al braccio e, dopo aver trasformato un rigore, mostra la maglietta bianca con il bersaglio e la scritta 'target', simbolo di quanti da oltre un mese protestano per gli ordigni contro la Serbia. In biancoceleste dal 1998 al 2004, diventa l'idolo della tifoseria che ripaga con un totale di 20 gol, suo record con la stessa maglia. Chiude la carriera nel 2006, dopo due stagioni all'Inter. Da tecnico si guadagna ben presto il soprannome di 'sergente' per i pesanti metodi di allenamento. Una carriera con piu' esoneri che successi, ma ovunque Mihajlovic e' apprezzato per l'impegno e la dedizione al lavoro. La grinta, la voglia di essere in panchina nonostante gli effetti delle cure, lo fanno amare a Bologna piu' che altrove. E giocatori e tifosi lo ringraziano, andando a salutarlo sotto le finestre dell'ospedale, quando non puo' essere al suo posto. O recandosi in pellegrinaggio al Santuario di San Luca, con quelli della Lazio, per pregare insieme per il loro allenatore. La storia in rossoblu' si chiude con l'esonero nello scorso settembre, amaro e non accettato: 'Stavolta il sapore che mi lascia il mio voltarmi indietro e' piu' triste', scrive rivolto a 'fratelli e concittadini, dopo tre anni e mezzo di calcio, di vita, di lacrime, di gioia e di dolori'. (ANSA).