Crisi, Conte cerca voti in parlamento senza Renzi e con l'appoggio del Pd

Da lunedì 18 gennaio Giuseppe Conte non potrà più tornare indietro. Ha scelto la strada più diretta, più rischiosa, ma  anche quella che, se i conti sulla fiducia torneranno in Aula, lo porterà alla netta vittoria su Matteo Renzi. Il discorso da fare in Parlamento sarà preparato nel weekend e a Palazzo Chigi già si studiano concetti, citazioni, «non detti» da inserire in un intervento cruciale per l’intera legislatura.

Nel pomeriggio il premier riferisce le sue intenzioni al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E il capo dello Stato gli dà il via libera, seppur con una certa preoccupazione. Se il premier otterrà la fiducia Mattarella non potrà che prenderne atto. Ma al Quirinale, secondo fonti parlamentari, al premier sarebbero state ribadite le preoccupazioni dei giorni scorsi sulla nascita di un maggioranza che rischia di dimostrarsi fragile nei prossimi mesi. E la conseguenza logica che, se fallisse il suo tentativo, il ritorno alle urne, entro luglio, sarebbe nell’ordine delle cose.

Conte, da qui a lunedì, camminerà sui carboni ardenti.

Eppure, nella prima giornata dopo lo schiaffo di Renzi ai suoi si mostra tranquillo, impegnato sui dossier più concreti. Sente il direttore della Fao e il premier britannico Boris Johnson e comincia a preparare il G20, di cui l’Italia quest’anno sarà presidente. Fattore, quest’ultimo, che ha alimentato ulteriormente l’irritazione di Palazzo Chigi per lo strappo di Conte. Uno strappo, sottolinea chi frequenta con assiduità le stanze del governo, che rischia di avere contraccolpi sensibili sulla credibilità dell’Italia in un’Europa che resta vigile sull’utilizzo del Recovery Fund. «Poi ci chiediamo perché non concedono la mutualizzazione del debito...», osserva chi ha dimestichezza con i dossier europei.

La carta ormai scoperta del premier sono i Responsabili.

L’operazione non è semplice ma, a Palazzo Chigi, si mostrano piuttosto sicuri. Il tema, più che altro, è strutturare questa compagine, amalgamarla all’alleanza Pd-M5S-Leu in un programma di fine legislatura che per i Dem resta una «conditio sine qua non» per il prosieguo di un esecutivo. E, ad agevolare indirettamente l’arrivo dei volenterosi, potrebbe essere propria la vigilanza del Quirinale. Una vigilanza che, già nei giorni scorsi, ha tutt’altro che escluso il ritorno alle urne prima dell’inizio del semestre bianco.

L’obiettivo di Conte, tra l’altro, è «pescare» proprio nei gruppi guidati da Renzi mentre restano attivissimi i contatti tra gli sherpa di FI e Palazzo Chigi. Tanto che, tra gli azzurri, c’è chi fa notare un dato: nelle dichiarazioni in Aula degli ultimi giorni gli attacchi a Conte si sono diradati. Al premier, tuttavia, potrebbe essere chiesto da una parte di responsabili di accelerare la sua discesa per una leadership politica. E non è una boutade sostenere che, nel premier, la tentazione c’è ed è quella di occupare il campo dei moderati, inserendosi negli ingranaggi della «maggioranza Ursula» invocata oggi da Luigi Di Maio nell’appello ai costruttori.

Il M5S, in una riunione dei membri di governo, fa quadrato attorno al premier. L’ordine di scuderia è non attaccare i responsabili. Anche chi, a taccuini chiusi, non disdegnava un cambio di guida al governo sembra «arreso» alla permanenza di Conte. «Le alternative sono tutte meno favorevoli», spiegano nel Movimento. Certo, il restyling del Conte-bis - se il premier otterrà la fiducia non ci saranno neppure le consultazioni - porterà un probabile rimpasto. E nelle fila del M5S già crescono le fibrillazioni. «Chi resterà di certo sono Di Maio, Patuanelli e Bonafede», osserva una fonte parlamentare.

E quello del rimpasto è un capitolo destinato ad aprirsi anche nel Pd. Ma prima c’è quel voto di lunedì, e un weekend di frenetici contatti tra i leader e tra il premier i possibili responsabili.
Il tempo stringe. Il rischio è quello di fare male i conti e di sottovalutare la volatilità della politica. Tanto che Renzi spiega ai suoi che la partita non è finita. Che un ribaltone parlamentare è ancora possibile. A quel punto Conte uscirebbe di scena e nel buio della crisi emergerebbe la soluzione delle larghe intese.


«Abbiamo voltato pagina». Il Partito democratico taglia i ponti con il suo ex segretario. La base «in rivolta» e la sorpresa per aver sentito Matteo Renzi respingere l’ultima mediazione, compattano i «big» Dem, con Nicola Zingaretti stanno tutti, da Dario Franceschini al leader della minoranza, Lorenzo Guerini. I distinguo all’indomani della rottura sono solo una sfumatura, nelle dichiarazioni di chi come Andrea Marcucci fino all’ultimo non vorrebbe negare il varco a «ripensamenti».

La minoranza guidata da Matteo Orfini auspica che si tenga Iv allargando la maggioranza ai responsabili contiani, con una mossa che sminerebbe Renzi rendendolo «non più indispensabile». Un’opzione che anche altri avrebbero caldeggiato nelle prime ore dopo la rottura. Ma nel «day after», sembra poco più di un auspicio.

«A questo punto è o C, o C», o un governo Conte sostenuto dai responsabili, o un governo Cartabia che traghetti l’Italia alle elezioni anticipate a giugno. Queste due uniche alternative vedono a sera in casa Dem. Il voto non è un auspicio, ma sarebbe l’esito drammatico della rottura. Perché il Pd non sosterrebbe un governo di larghe intese con la destra: lo dice Nicola Zingaretti all’ora di pranzo, nel riunire l’ufficio politico del Pd, con ministri e capigruppo. E sarebbe un’ipotesi dell’irrealtà, secondo un dirigente, ragionare - come invita a fare Renzi - a un premier come Franceschini: i Cinque stelle non lo sosterrebbero. Dunque, a tarda mattinata arriva il via libera: se si paleserà da qui a lunedì «alla luce del sole» un nuovo gruppo che sostenga il governo «europeista» di Conte in Aula, ben venga.

«Non c’è da vergognarsene», dice Dario Franceschini, che fino all’ultimo ha tenuto un canale aperto con Renzi. Ora anche i parlamentari della sua Area Dem sentenziano che è troppo tardi per ricucire.
Più che sui ripensamenti dell’ex premier e una sua riconciliazione (impossibile) con Conte, è sui ritorni a casa di deputati e senatori di Iv che si scommette in queste ore nei gruppi Dem. La partita dei responsabili è in mano a Giuseppe Conte, precisano dal partito, ma il Pd apre a una maggioranza con un nuovo gruppo contiano che si palesi «alla luce del sole».

In nome della responsabilità e della necessità, come spiega Nicola Zingaretti nel pomeriggio ai segretari regionali, di evitare in piena pandemia Covid di aprire una crisi che porti il Paese al voto. Concordano gli ex renziani: si lavora per non far cadere il governo. Sono loro, gli esponenti di Base riformista, i più spiazzati dall’ex leader e anche delusi: «Incredibile che abbia giocato così questa mano di poker, ha fatto avvitare la crisi ma così si è infilato in una buca anche lui».

Cautela, però. La partita dei responsabili non è chiusa, aggiungono al Nazareno. Ed è questa l’ultima scommessa di Renzi, che l’operazione di Conte fallisca e apra la strada a un nuovo premier . Sembra un azzardo, nelle ore in cui i «responsabili» iniziano a palesarsi, a partire da Riccardo Nencini, che a Renzi ha «prestato» il simbolo Psi per formare il gruppo al Senato. Lo spauracchio, già si beano gli avversari, è che l’ex premier finisca nel gruppo Misto. Ma Renzi, che in giornata si fa vedere a una riunione in videoconferenza con i senatori Iv, è un’altra: «Stanno giocando il tutto per tutto. Se vincono martedì avranno 163 voti e nascerà il governo Conte-Mastella. Se perdono dovranno tornare a parlare con noi».

Renzi sarebbe stato stupito della reazione di rottura dei Dem, ma chi ancora tiene i contatti con lui gli ribatte che era stato avvertito. Nei gruppi di Iv inizia a trapelare qualche preoccupazione. E se nelle riunioni deputati e senatori non si smarcano apertamente, a taccuini chiusi iniziano a far trapelare distinguo.

«Avevamo avvertito Renzi di questo», dice un esponente Pd. Si parla di divisioni anche tra i dirigenti, anche se Ettore Rosato smentisce. Nei prossimi giorni qualcuno potrebbe bussare alla porta dei gruppi Pd, qualcun altro andare ai responsabili. «Almeno tre, forse cinque», dicono al Senato.
Il varco questa volta per Renzi è strettissimo. Solo se riuscirà a tenere i suoi, può sperare di vincere la sua scommessa.

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