Formaggio trentino da valorizzare Ma il dietologo avverte: «Limitarsi»

di Matteo Lunelli

Lo chiamano «l’uomo dei prati», ma potrebbe anche essere «l’uomo del formaggio». Perché la filiera parte sì dall’erba, ma poi, dopo i vari passaggi, arriva sulle nostre tavole sotto forma di prodotto caseario. Lui all’anagrafe è Francesco Gubert, è del 1984, e la sua storia, che poi diventa una sorta di missione, è di quelle che vanno raccontate.
Di Trento, ma cresciuto nel Primiero, «in un ambiente di montagna, con la piccola azienda agricola dei miei genitori che mi ha permesso di stare a contatto con la terra e con gli animali», è il settimo dei nove figli dell’ex senatore Renzo Gubert. Studia al Prati e poi, messi da parte il greco e il latino, si iscrive a Scienze Agrarie: tre anni a Bolzano, poi a Vienna e infine la specialistica in Nuova Zelanda. Paesi scelti, ovviamente, non a caso: nella realtà, ma anche nell’immaginario comune, sono terre di campi e di verde, il top per chi, di lì a poco, diventerà «l’uomo dei prati». Ma oltre all’aspetto accademico c’è anche quello pratico e concreto, e allora ecco spuntare un altro Paese «green», la Svizzera, dove Francesco si trasferisce per un periodo lavorando in malga, mungendo le mucche e producendo formaggio. Le competenze, quindi, sono chiare: erba e latte, per farla breve.

E che cosa fa un esperto di erba e latte? Appunto l’esperto. Ufficialmente è un agronomo, ma una etichetta appare riduttiva per la sua attività. «Ho deciso di buttarmi sul mercato, rischiando, ma mettendo a disposizione di tutti quello che so e la mia filosofia. Due anni fa mi sono licenziato dalla Fondazione Mach, dove seguivo un progetto per valorizzare i prodotti di malga, e oggi faccio corsi e formazione e la mia agenda, fortunatamente, è pienissima. Vado da agricoltori e allevatori, ma anche da studenti e da chi lavora al bancone del supermercato, dai camerieri e dai consumatori finali, con un obiettivo e una missione: far percepire e far aumentare il valore del prodotto caseario, ovvero dei formaggi, e dei nostri prati. Noi non abbiamo una cultura del prato come nei paesi germanici. Inoltre faccio seminari, mi hanno chiamato anche in Friuli e in Alto Adige, dove insegno tradizioni e qualità in ambito caseario. E poi c’è un corso con i giovani imprenditori agricoli, e ancora un percorso con i gestori di B&B, improntato sul valore della colazione, con degustazioni dei vari tipi di latte».

La salvaguardia e la cura del prato alpino permette di dare il via a un circolo virtuoso: gli animali si alimentano bene, il paesaggio ne guadagna, la produzione di latte sarà migliore e i prodotti finali di alta qualità. Detta così, ovviamente, sembra facile. «In tutto questo ci sono vari aspetti da considerare. Ad esempio noi trentini diamo ormai per scontato il nostro paesaggio, ma non è così. Esistono studi e ricerche che dicono che per il consumatore il prodotto alimentare è connesso all’immagine del territorio da cui proviene: potremmo dire paesaggio bello uguale formaggio più buono. A proposito di formaggi: da noi è considerato cibo povero, da consumare a margine di un pasto. Ma la Francia, o per stare più vicini il Piemonte, dimostrano che non è così e anzi potremmo dargli una centralità maggiore nelle abitudini alimentari. Estremizzando possiamo dire che noi trentini ci facciamo il formaggio e ce lo mangiamo, quando invece potremmo portare alcuni prodotti, da quelli di malga a quelli dop, nelle tavole di tutta Italia. La quantità è limitata? È vero, perché ad esempio di Asiago vengono prodotte un milione e ottocentomila forme, mentre di Spressa seimila, ma proprio per quello dobbiamo valorizzare di più le nostre specialità».

I CONSIGLI DEL DIETOLOGO 

Il formaggio è buono, piace a grandi e piccini e, secondo Francesco Gubert, va valorizzato. Ma bisogna anche stare attenti a consumarlo in modo consapevole, «perché fa alzare il colesterolo e fa ingrassare». A spiegarlo è il dottor Michele Pizzinini, dietologo e specialista in Scienze alimentari. Che su alcuni aspetti è d’accordo con Gubert: «Certo, valorizzare il prodotto della nostra terra va benissimo, andando a cercare i formaggi di malga ed essendo disposti a pagarli anche un po’ di più, perché arriva da una filiera virtuosa nei nostri pascoli alpini».
Il «però» sembra essere dietro l’angolo.
Effettivamente c’è un grande però: è un lusso che non possiamo permetterci tutti i giorni. Come con i dolci, non vanno demonizzati, ma bisogna contenersi.
Il problema sta nel latte o nel prodotto finale che arriva sulle nostre tavole?
Il latte è un alimento per l’accrescimento rapido: le mucche lo producono perché è ricco di sostanze che appunto fanno crescere velocemente i piccoli. E il formaggio è un concentrato di latte, quindi la sua bontà è indiscutibile, ma ha molte controindicazioni.
Stiamo parlando di tutti i tipi di formaggio?
Oggi si usano molto quelli già tagliati a fette, da mettere nei panini, o le sottilette da mettere un po’ dappertutto per insaporire. Ecco, piuttosto è meglio cercare un prodotto di qualità, magari di malga. E comunque non tutti i giorni e senza esagerare.
In Trentino continua a essere considerato un cibo povero che non ha «centralità» nel pasto, mentre in altre zone del mondo ma anche d’Italia, come sostiene Gubert, ha un ruolo diverso. Chi ha ragione? Il Piemonte, ad esempio, o il Trentino?
Va bene se diventa centrale, ma come alternativa alla carne, ad esempio. Ovvero non un secondo di carne e alla fine mangiarsi anche quattro pezzi di formaggio.
Ovvero quello che accade da noi, perché come dice il proverbio la bocca non l’è straca se non la sa de vaca.
Esatto, ma quel proverbio è sbagliatissimo da un punto di vista nutrizionale e dietetico. Quindi ricordiamoci che è un alimento molto ricco e che va mangiato in maniera consapevole.

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