I disturbi alimentari sono sempre più diffusi: «A rischio il 90% delle adolescenti»
La psicologa Carlotta Di Giusto: «Il taglio delle relazioni sociali e delle “attività protettive” come lo sport per i lockdown hanno contribuito all’aumento dei malati». Dopo il Covid sono aumentati i casi del 30% e i ricoveri del 40%. L’età si è abbassata anche a bambine di 9-10 anni
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ROVERETO. Carlotta Di Giusto, psicologa e psicoterapeuta, ha lavorato al centro per l'anoressia e i disturbi alimentari dell'ospedale Bambin Gesù di Roma ed è referente per i disturbi alimentari del centro clinico Siipe di Roma. Tiene conferenze pubbliche sull'argomento e interviene nelle scuole trentine per sensibilizzare e informare insegnanti, genitori e studenti. Ieri ha incontrato alcune classi del don Milani, perché «è importante prevenire e informare. Riconoscere i sintomi e rivolgersi tempestivamente agli specialisti aumenta le chance di guarigione. È fondamentale stabilire un'alleanza tra i professionisti e la famiglia».
Si parla di manifestazioni di disagio sempre più diffuse tra i giovani. Qual è la situazione attuale?
«Le ricerche pubblicate recentemente a livello internazionale parlano del 30% di aumento dei sintomi legati al disturbo alimentare e del 40% in più di ricoveri. Ma la mia riflessione va al di là della pandemia, che senz'altro ha esasperato i disturbi depressivi e l'ansia. Ora c'è anche maggiore attenzione, visto che ci siamo trovati a vivere molto più a contatto nella dimensione familiare. La riduzione delle relazioni sociali dovute ai diversi lockdown ha causato un aumento del rischio per la fascia adolescenziale. Anche la riduzione delle "attività protettive" come lo sport, ha contribuito al diffondersi dei casi».
Quali sono i campanelli d'allarme per gli adulti?
«I primi aspetti sono legati al ritiro sociale e al cambiamento repentino di umore. Le ragazzine tendono a ritirarsi e sono in grossa difficoltà se vengono invitate a una pizza con gli amici. I sintomi sono naturalmente legati anche al tipo di disturbo. Ma ci sono altri elementi, ad esempio quando le ragazzine mangiano qualcosa e utilizzano nell'immediato comportamenti di compenso, come l'iperallenamento».
Quali sono le origini dei disturbi alimentari?
«Si tratta di una problematica multifattoriale: la predisposizione genetica e alcune caratteristiche personali come perfezionismo e bassa autostima o i fattori ambientali, come gli eventi negativi della vita. Traumi, separazioni, lutti, difficoltà di relazioni con i coetanei, ma non c'è mai una sola causa».
È possibile tracciare un profilo dell'adolescente a rischio?
«Il rischio riguarda al 90% le femmine in preadolescenza e adolescenza, il 70% si colloca tra i 12 e i 25 anni. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito a una diminuzione dell'età dell'esordio, tanto che ora abbiamo casi a partire dai 9-10 anni di età. In parte perché è diminuita l'età del menarca e per un discorso legato ai cambiamenti sociali. Il sintomo alimentare serve per rendere visibile un disagio profondo».
Anche i media hanno una responsabilità?
«Sicuramente l'esposizione ai media in età sempre più precoce conduce a un confronto con i social che rappresentano immagini di perfezione fisica. Quasi sempre si tratta di immagini filtrate che veicolano un'immagine non coincidente con la realtà. Negli anni '90 l'antropologa Anne Becker aveva condotto degli studi alle isole Fiji, rilevando in un solo anno un considerevole aumento di casi. Cosa era successo? Era arrivata la tv via cavo che trasmetteva programmi dagli Usa. Veniva rappresentata un'immagine di bellezza molto diversa da quella tradizionale del luogo, legata a corpi morbidi».
Come si può intervenire?
«Il tentativo di dialogo con il figlio e il riconoscimento di avere un problema è fondamentale. Il confronto non deve però focalizzarsi solo sul cibo. I genitori tendono comprensibilmente ad approcciare il problema in modo diretto, ma il rapporto disturbato con il cibo è la manifestazione di un disagio interiore. È importante interessarsi alla vita dell'adolescente in quel momento. Ma se c'è un calo ponderale ovviamente bisogna intervenire subito, viste le implicazioni di salute che possono insorgere».
L'aiuto tra pari può aiutare?
«Certamente può aiutare a superare lo stigma. Parlare di questa forma di disagio porta a considerare la situazione non come una colpa della persona che la sta vivendo. Anche rispetto ai genitori c'è da fare un lavoro sul significato di quello che la figlia o il figlio stanno vivendo. Le testimonianze di chi ci è passato possono far capire che è una patologia e che ci si deve rivolgere a dei professionisti perché la sola forza di volontà non basta».
A chi devono rivolgersi i genitori?
«È fondamentale un intervento integrato tra psicologo, nutrizionista, medico o pediatra che devono lavorare in sinergia perché sono disturbi complessi. Dal disturbo si può certamente guarire ma è importante la tempestività dell'intervento prima che si cronicizzi».
Le colpe spesso ricadono sulle famiglie…
«Problematiche e conflittualità familiari hanno certamente un peso, ma in realtà si è abbandonata da tempo la visione della quasi totale responsabilità dei rapporti familiari. Posso dire per esperienza che la maggior parte delle famiglie diventano un aiuto prezioso e un sostegno al percorso, aumentando notevolmente le chance di uscirne e guarire».