Belluno e l'autonomia negata, ecco il doc "Dolomiti: la (non) provincia italiana che sta scomparendo”
Rimbalza sui social l'opera realizzata dal canale di divulgazione culturale NovaLectio, che con una serie di interviste descrive le allarmanti condizioni sociali in un territorio alpino inascoltato, sofferente per lo spopolamento e la crisi dei servizi pubblici. Una provincia che per anni aveva tentato un dialogo (inascoltato) con il Trentino
AUTONOMIA Riprendere il dialogo fra le province di Trento e Belluno
INTERVISTA "Così Belluno costruisce la sua autonomia"
ASSESSORE "Cambiamo nome alla Provincia, diventi Belluno Dolomiti"
TRENTO. Delle battaglie autonomistiche ultradecennali della vicina provincia dolomitica di Belluno l'Adige si è occupato spesso, fin dal primo referendum cosiddetto secessionista. Era il 2005 quando il Comune di Lamon, nell'area sudoccidentale del Bellunese, al confine con le aree trentine del Vanoi e del Tesino, fu l'apripista di una serie di votazioni, su base costituzionale, animate in particolare dal movimento Bard (Belluno autonoma Regione Dolomiti), allo scopo di portare finalmente al centro dell'attenzione del legislatore nazionale la questione di questo fazzoletto alpino pesantemente svuotato di strumenti istituzionali.
Dopo Lamon seguirono decine di territori confinanti, specie con il Trentino, ma anche con l'Alto Adige, cioè dell'area bellunese impropriamente denominata "ladina storica", quasi a nobilitarla rispetto ai municipi vicini e appartenente alla medesima minoranza linguistica ma non già all'Impero asburgico.
Nella gran parte dei casi vinsero i sì all'addio alla matrigna Regione Veneto colonizzatrice; ma per ragioni alquanto oscure, l'unico via libera parlamentare fu ottenuto da Sappada, comune germanofono bellunese di nordest che nel 2017 passò al Friuli Venezia Giulia. Una regione, quest'ultima, che peraltro in materia di politiche per la montagna non si distingue gran che dal Veneto, entrambe prevalentemente di mare e di pianura.
Ci fu anche un comune, quello di San Pietro di Cadore, dove in municipio si fece presente l'impossibilità di indire il referendum, perché l'unico confine non bellunese è con l'Austria...
L'intento dei promotori delle decine di referendum finiti a Roma in un binario morto istituzionale era appunto quello di denunciare il deficit di rappresentanza e di potere locale sofferto dalla provincia di Belluno. E nel contempo di proporre soluzioni di riequilibrio, per riportare nelle vallate dolomitiche quella facoltà di autogoverno ritenuta il punto di partenza per svincolarsi dalle politiche regionali del Veneto, improntate a una visione calata sulle esigenze dei territori di pianura e con una tendenza a guardare alla montagna come fonte di risorse (acqua e energia in primis) e terreno fertile per business pensati altrove.
Le attenzioni predatorie sono uno dei rischi che da decenni vengono indicati dallo stesso movimento Bard, che ha dedicato in passato molto tempo a tessere relazioni con le classi dirigenti trentine e altoatesine. Erano i tempi delle giunte di centrosinistra in piazza Dante, da Dellai ai successori: ma le proposte bellunesi di aprire una nuova stagione autonomista transdolomitica sono cadute pesantemente nel vuoto. L'idea di declinare in qualche modo, anche sul piano istituzionale, una Regione Dolomiti, è stata respinta al mittente. Così come ogni altra proposta di rafforzare, costruendo strumenti istituzionali, la cooperazione fra territori alpini, in un contesto che avrebbe richiesto, però, anche un riequilibrio degli strumenti istituzionali a disposizione del Bellunese, cioè un margine di autodeterminazione sempre negato.
Gli autonomisti bellunesi avevano un approccio pragmatico alla questione: i territori di montagna, oltre a essere chiamati alla tutela delle proprie minoranze linguistiche, devono affrontare condizioni giocoforza complicate da vari punti di vista, a causa della morfologia sociale e ambientale. Tutto è più costoso e complicato in zone coperte per lo più di alte rocce: ospedali, strade, ponti, ferrovie, scuole, autobus, commerci. Tanto che, senza strumenti locali per governare e riequilibrare i sistemi, la legge del mercato produce inesorabilmente lo spopolamento delle valli più remote e meno attrezzate dal punto di vista del turismo o di altre attività produttrici di reddito e di servizi per i residenti.
Il concetto è abbastanza semplice: vivere dignitosamente in montagna costa di più e la Repubblica è tenuta a rispondere adeguatamente anche a questi suoi cittadini. E per utilizzare al meglio le finanze disponibili, evitando sprechi e intermediazioni interessate, le decisioni vanno prese localmente.
Perciò la provincia di Belluno, ignorata da tutti nel suo ultradecennale grido di dolore e anche nella sua proposta di soluzione tramite l'autonomia istituzionale in una versione ad hoc, è attraversata da un doppio fenomeno di spopolamento: da un lato ci si sposta dalle vallate settentrionali verso la Valbelluna (l'area economicamente vivace di Belluno, Feltre e dintorni), dall'altro - specie se si è giovani - si emigra fuori provincia.
Una desolazione, prevista chiaramente anni fa e fotografata oggi, che sta facendo marciare il Bellunese sotto la soglia dei 200 mila residenti. Ma con il paradosso che alcuni comuni di fondovalle crescono, mentre altri, nelle valli remote, si svuotano.
Non deve ingannnare il relativo benessere medio della provincia bellunese, legato alla presenza di attività turistiche e manifatturiere rimarchevoli (a cominciare dal colosso Luxottica, che da sola ha un enorme peso specifico, con quasi seimila dipendenti fra Agordo, Sedico e Cencenighe). Non deve ingannare perché in tempi di estrema fluidità economica e di transizioni, è fondamentale avere alla base anche un'architettura istituzionale pubblica, servizi e strumenti policentrici di formazione e innovazione.
E a invertire la deriva non saranno certo trovate estemporanee lagunari e milanesi, come i Giochi olimpici a Cortina (ma da svolgersi in gran parte fuori provincia).
La sensazione è che oggi si navighi a vista, una volta caduto nel vuoto il tentativo di dialogare in particolare con il Trentino i cui governanti non hanno colto l'opportunità di un'alleanza con Belluno come opportunità di consolidare anche le basi della propria autonomia. Se le motivazioni storiche, infatti, si ingialliscono col tempo, quelle legate alla quesione montana si moltiplicano e avere dei compagni di strada sarà fondamentale anche per chi gode da sempre dello Statuto speciale. Ma probabilmente credere nell'avvio di una tale stagione di rinnovamento trentino sarebbe stato pretendere troppo dalle classi dirigenti che passa il convento, di questi tempi.
Al momento ai bellunesi resta, dunque, la lettera quasi vuota del nuovo Statuto regionale del Veneto che sancisce la "specificità" dell'area montana e la cessione di una serie di competenze importanti. Ma è tutta roba che in fin dei conti non ha risvolti concreti nelle comunità dolomitiche, che assumono sempre più le sembianze di una minoranza alpina dimenticata dal legislatore, rassegnata e delusa.
Eppure le potenzialità di questi territori sono enormi, specie oggi, in un contesto di crisi ecologica che accentua il ruolo delle zone che - volenti o nolenti - hanno preservato nei decenni il proprio patrimonio naturale più che altrove.
Paradossalmente, il deficit istituzionale è addirittura peggiorato, dopo la riforma del 2014 che ha depotenziato e umiliato le Province ordinarie, anche abolendone l'elettività e trasformandole in un consesso di sindaci e consiglieri comunali. È stato un maldestro e populista colpo di spugna su uno spazio importante dal punto di vista democratico e funzionale, l'ente di area vasta più coerente con l'aderenza al territorio (diversamente dalle fantasiose Regioni) è stato sacrificato sull'altare della ricerca di facile consenso.
E in quel caso il protagonista dell'operazione fu il centrosinistra a trazione renziana, mentre soffiava il vento anticasta dei cinquestelle prima maniera. La casta sarebbero dunque le province, non tutto il resto che le sovrasta. Ora, preso atto di una riforma fallimentare, si prospetta il ritorno all'eleizone diretta delle Province ordinarie; ma restano da affrontare molti altri punti, a cominciare dall'autonomia per la montagna.
A riaprire oggi uno squarcio importante sulla realtà bellunese e sull'urgenza di una risposta innanzitutto dal legislatore è un documentario realizzato dal canale YouTube di divulgazione culturale NovaLectio e pubblicato lo scorso 7 marzo.
Si intitola in modo eloquente “Dolomiti: la (non) provincia italiana che sta scomparendo” e presenta una serie di voci dalle quali emerge un'analisi appropriata e drammatica della condizione bellunese. Dal noto sociologo Diego Cason al direttore di Radio Più Mirko Mezzacasa, dal ricercatore Davide Conedera a vari altri studiosi.
Testo e ricerca del documentario sono a cura di Jacopo Turco, motion Graphics e editing di Simone Guida.
"A dicembre del 2023, Nicola, un ragazzo che vive ad Agordo, in provincia di Belluno, ci ha contattato chiedendoci di realizzare un documentario che toccasse vari temi: lo spopolamento, l’autonomia, la lingua ladina, la controversa pista da bob per i Giochi Olimpici invernali 2026 di Milano Cortina, e l’azienda manifatturiera Luxottica. Messi insieme, questi elementi all’apparenza così distanti compongono un quadro scoraggiante non solo per la provincia di Belluno, ma per l’Italia intera. Per capire quale sia il legame che unisce questi argomenti, abbiamo deciso di viaggiare tra le Dolomiti, alla scoperta di un territorio poco conosciuto, che tuttavia può insegnarci molto sul nostro Paese", scrivono gli autori presentando il video.
Un video che in queste ore sta circolando moltissimo sui social, rimbalza fra Whatsapp e altri canali, anche fra i giovani bellunesi che sono le prime vittime di un declino annunciato.
Ma che, forti di una nuova consapevolezza e di un po' di fiducia ritrovata, potrebbero trasformarsi in una nuova forza di lotta collettiva per difendere e rilanciare il territorio.