L'ostetrica trentina volontaria in Burundi Da 11 anni Marta aiuta mamme e bimbi
Ha lavorato per 42 anni al Policlinico di Verona, come ostetrica, e giunta all'età pensionabile ha deciso di fare le valigie, destinazione il Burundi. Marta Endrizzi di Cavareno, dove ha casa, non era nuova ad esperienze all'estero: Bolivia, Pakistan, Nepal, Kosovo nel periodo bellico. L'università veronese le ha chiesto di recarsi in Burundi per fare formazione in un ospedale, in accordo con una università del posto; lei ha accettato, e da 11 anni opera nel Paese africano. Paese mica semplice: dall'indipendenza post protettorato belga del 1962 una serie di colpi di Stato, lotte tra etnie hutu (stragrande maggioranza) e tutsi, con i twa (più noti come pigmei) reietti - sono solo l'1% -, e la povertà (reddito pro capite 300 dollari l'anno), le malattie, la malnutrizione a completare il quadro.
[[{"type":"media","view_mode":"media_large","fid":"1570026","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"285","width":"480"}}]]
«Per otto anni sono stata all'università di Ngozi, poi ho deciso di spostarmi come volontaria al centro salute di Gwana, al nord, lontano dalle città dove sei sempre visto come bianco che ha tutte le colpe della situazione», spiega Marta, in questo periodo a casa. «Una realtà gestita da suore italiane e tanzaniane, con un centro salute ben attrezzato ed organizzato. Dove è possibile fare qualcosa, anche se per giungere ad una situazione dignitosa serviranno decenni».
Lei continua a fare l'ostetrica, e molte altre cose. Ad aiutare le donne nel parto, o nel periodo neonatale, per attenuare i dati della natalità infantile, altissimi. In Burundi ogni donna partorisce in media 6-7 figli, che crescono - quando crescono - tra povertà e malattie. «Un giorno al centro è arrivata una donna con un bimbo in braccio. Non si reggeva in piedi, pesava 38 chili, suo marito, poliomelitico, ha detto che il piccolo non cresceva. La donna è morta il giorno seguente. Il padre, che camminava a stento con un bastone, ha preso il bimbo e se ne è andato. Difficile pensare che sia sopravvissuto. Facciamo controlli sulla popolazione, è una rarità una persona che superi i 50 chili, anche se si tratta di un tutsu alto 1 metro e 90. Quanto alle malattie, non è l'Aids, a spaventarci, ma la malaria. Solo tra febbraio e marzo ne sono stati registrati 1 milione 800 mila casi (su una popolazione di 11 milioni in un territorio vasto quanto il Trentino-Alto Adige, ndr), ne sono morte 700...». Per sostenere l'opera di Marta Endrizzi, nel suo paese natale, è nata l'associazione «Una speranza per il Burundi», che sta raccogliendo materiale scolastico per inviare un container nella missione dove lei opera.
«Abbiamo già realizzato l'edificio, ma manca tutto. Raccogliamo anche quaderni mezzi usati, matite consumate, qualsiasi cosa. Così come per gli orfanatrofi, ce ne sono tantissimi, noi aiutiamo quello di Nyabiraba, misere capanne dove vivono decine di ragazzini, malnutriti e malati». In Burundi di orfani o abbandonati se ne contano 800 mila: quasi uno ogni dieci abitanti. «Spesso si fornisce cibo, polenta di manioca, fagioli, riso. Ma non basta. Anche quando dai alimenti per il bimbo neonato, va a finire che lo mangia tutta la famiglia, la povertà è assoluta, la fame una costante. Abbiamo segnalato quell'orfanatrofio all'Unicef, non si è mosso niente. Le grandi organizzazioni, in Burundi, sono assenti». Così si fa quello che si può. «Per combattere la malaria, male principale causato dalle zanzare che prolificano nelle paludi (oltre a tifo, vermi intestinali ed altro, mancanza di igiene ed acqua inquinata) si distribuiscono zanzariere, ma vengono usate per pescare, per proteggere le piantagioni di riso, per difendere i pulcini dai rapaci. Si compiono piccoli passi, ci vorranno anni ed anni». Lei in Burundi ci tornerà. «Finché sto bene, vado avanti».