Arco / Personaggi

Ubaldo Gervasoni, il ribelle di Dio: teologia della liberazione e quel sogno rivoluzionario per gli ultimi in America Latina

Intervista con un protagonista, oggi 79enne, di tante lotte nel nome di un cristianesimo che sia anche riscatto per i poveri, un prete operaio che è rimasto in Nicaragua fino al 1992 prima di rientrare in Italia, nell'Alto Garda. "Quando i contras attaccarono la parrocchia, mi avessero trovato con il kalashnikov mi avrebbero fatto fuori: invece l’avevo già riconsegnato. Ma mi rapirono..."

di Stefano Ischia

ARCO - È una vita straordinaria quella di Ubaldo Gervasoni, 79 anni, pensionato residente a Ceole, Arco di Trento. Acciaccato ma sempre lucido, ripercorre la sua vita da quando decise di farsi sacerdote e prete operaio. Aveva abbracciato la Teologia della liberazione, faceva parte della comunità cristiana di base di San Paolo a Roma con Gianni Novelli e Giovanni Franzoni; ha lavorato nella comunità di don Franco Monterubbianesi, fondatore della comunità di Capodarco.

A metà anni Ottanta è stato volontario nella parrocchia La Inmaculada di Waslala, Nicaragua, durante la guerra dei contras; lì, insieme ad altri sacerdoti e a laiche e laici, contribuì alla creazione delle prime pastorali sociali (terra, salute, educazione), che traducevano gli insegnamenti evangelici in azioni concrete a difesa e promozione della vita. Richiamato dal Vaticano nel 1988 mentre era a Waslala, Gervasoni scelse di restare a fianco della rivoluzione sandinista e dei contadini nella sua comunità in zona di guerra; così nel 1990 venne sospeso “a divinis” dalla gerarchia cattolica, di fatto non considerato più sacerdote.

Rimase in Nicaragua fino al 1991 quando se ne tornò in Italia a Riva del Garda, dove, assieme a Claudia Lorenzi, continuò il suo impegno con l’associazione Italia-Nicaragua di Rovereto e con il commercio equo. Ha fatto per anni il mediatore di conflitti per Itea, l’Istituto trentino di edilizia abitativa.

BIOGRAFIA

Nato a Bàresi di Bergamo nel 1944, Ubaldo Gervasoni si è laureato in teologia nel 1972 alla Pontificia università lateranense e nel 1980 in sociologia all’università La Sapienza di Roma . Ha promosso attività e coscientizzazione sociale nelle borgate romane di periferia dal 1971 al 1985.

Solcato l’oceano, in Nicaragua ha collaborato con la revoluciòn popular sandinista dal 1985 al 1991 nei programmi della Riforma agraria nella cittadina di Waslala (oggi circa 50 mila abitanti), zona impervia e teatro di guerra. È stato testimone scomodo di una guerra sporca per reciproci interessi Usa-Contras-Vaticano. Nel suo libro Fecero appassire i nostri fiori (Edizioni Qualevita, 1993) ricorda che i morti furono 53 mila, 10 mila gli orfani e 25 mila i mutilati su 3,5 milioni di abitanti.

Per le sue opzioni politiche è stato sequestrato dai Contras nel 1988 e per la sua pratica comunitaria della Teologia della liberazione è stato sospeso a divinis dal Vaticano nel 1990. Rientrato in Italia a inizio anni Novanta si è stabilito a Riva del Garda dove si sposato con Claudia Lorenzi; hanno due figli, Samuele e Damiano. In Italia, anche assieme a Claudia, ha continuato la sua attività di solidarietà con il Nicaragua; ha collaborato con l’associazione interetnica Shangrillà di Trento ed è stato per tanti anni nel comitato progetti internazionali di Altromercato, centrale del commercio equo in Italia. Dopo avere lavorato per delle cooperative sociali, ha operato come mediatore di conflitti per l’Istituto trentino di edilizia abitativa.

Libri di Ubaldo Gervasoni:

Mille voci e una lacrima (1985); Nicaragua dal vivo (1986); S. Basilio, una borgata romana (1987); Fecero appassire i nostri fiori (1993); Edizioni Qualevita, via Buonconsiglio 2, 67030 Torre dei

Nolfi (AQ).

INTERVISTA

Lei è di un paesino della Bergamasca, Bàresi; è entrato presto in seminario?

Presto, di iniziativa mia, non dei genitori o del prete. Ho voluto fare questa scelta perché la credevo fondamentale per la mia vita. Ho retto 14 anni di seminario; ero entrato in quinta elementare.

È diventato sacerdote diocesano?

Diocesano, consacrato nel 1969.

Nel pieno degli anni della contestazione, dunque, anche in Italia: come ha vissuto quel fermento? Ha deciso in quel contesto di diventare prete operaio?

Il seminario era una istituzione aperta allora, perché ci venivano i vescovi del concilio Vaticano II e mi sorpresero parecchio per la loro mentalità, me lo ricordo con piacere. Io sono stato l’ultimo ad accettare il celibato obbligatorio.

Il celibato però è ancora obbligatorio.

È ancora obbligatorio ma non ha niente a che fare col sacerdozio.

Una volta sacerdote aveva già l’idea di fare il prete operaio?

No, le vicende della vita mi hanno portato a questo. Insegnare a San Basilio a Roma, periferia estrema di lotta politica, mi ha portato a maturare questa decisione.

Ma non era prete diocesano di Bergamo?

Sono andato a Roma perché c’erano preti bergamaschi con i quali mi ritrovavo nell’ideale di vivere in comunità e con la comunità. Io ad esempio davo al parroco tutto il mio stipendio di insegnante di religione alle scuole medie. Poi il vicariato mi ha tolto l’insegnamento per via della mia posizione favorevole al referendum per il divorzio; la Chiesa cattolica era ufficialmente contraria, così io, da disubbidiente, ho perso il posto.

Cosa ha fatto allora?

Ho pensato che dovevo diventare prete operaio per essere indipendente economicamente e non assoggettato alla Chiesa come istituzione; scelta non facile. Avevo già lottato a San Basilio per essere indipendente economicamente dalle messe (i fedeli ancora oggi pagano per fare celebrare le messe per i defunti ndr.). La gente di San Basilio non mi faceva dire più messa per i suoi defunti perché io avevo fatto questa obiezione: o gratis o niente. Siccome così, nella mentalità della gente, la messa non valeva più, non mi fecero più celebrare messe per i defunti. Allora mi sono incaponito e sono diventato prete operaio.

A quanti anni?

A 28 anni, nel 1972.

Che tipo di lavoro faceva?

Lavoravo nelle serre per una cooperativa agricola in cui decidevamo noi le sorti stesse della cooperativa perché io ero socio, anche se ero dipendente della comunità di don Franco Monterubbianesi (Fermo 1931, fondatore della comunità di Capodarco; nel 1982 aveva creato anche il movimento “Ritorno alla terra”, ndr.) che era il guru della comunità.

Quanti anni ha passato nelle serre?

Quattro anni; andavo ai Mercati generali a Roma a vendere i potus, che sono piante sempre verdi, li coltivavamo nelle serre.

E dopo il lavoro nelle serre?

Ho continuato a fare il prete operaio; nel frattempo avevamo occupato casale Boccaleone di cui ero il responsabile.

Chi aveva occupato? Come comunità di preti o come...

No, come comunità laica; ricordo che facevamo le riunioni preparatorie in uno scantinato al lume di candela, con noi c’era anche Stefano Giavarini de Il manifesto; noi eravamo compagni contestatori ma accettavamo il dialogo con le istituzioni.

Quanto tempo ha passato a casale Boccaleone?

Quattro o cinque anni e dopo me ne sono andato da lì, inizio anni Ottanta; sono finito in un altro cascinale agricolo non più occupato ma padronale, della famiglia Carletti. In quel contesto ho maturato che non potevo più continuare così e nel 1985 ho deciso di partire per andare a fare il volontario all'estero.

In un progetto in America latina?

Ho pensato prima alla Bolivia; ero d’accordo con un frate che insegnava antropologia in una facoltà boliviana, credo a Cochabamba.

Voleva vivere meglio la sua vocazione?

Volevo dare più significato alla mia vita; mi trovavo bene con i lavoratori italiani; ero amico dei responsabili; allora ero membro sia della comunità cristiana di base di San Paolo, sia del casale agricolo occupato. Partecipavamo a varie iniziative, andavamo a manifestare contro la guerra in Vietnam con la “telara” da prete, quella nera tradizionale, per esprimere che anche la Chiesa c’era. Alla comunità di base c’erano laici, preti, un po’ di tutto. Gianni Novelli (fondatore del centro interconfessionale per la pace Cipax ndr) e l’abate Giovanni Franzoni (Varna, Bulgaria, 1928 - Canneto Sabino 2017; riformatore benedettino, più giovane padre conciliare; le sue posizioni su temi come la guerra in Vietnam, le lotte operaie dell'autunno caldo e, soprattutto, il referendum sul divorzio del 1974 lo portarono alla rottura con il Vaticano ndr) erano membri ufficiali della comunità di base di San Paolo. Io ho conosciuto l’abate Franzoni quando era ancora abate e guida della comunità, poi il Vaticano l’ha sospeso “a divinis” e quindi dichiarato non più prete. A me non interessava se era abate o no, a me interessavano le sue idee e la libertà nell’esprimerle senza le restrizioni della Chiesa. Volevo però fare il volontario e il lavoro dipendente mi pesava: non trovavo in esso un fine sociale più ampio che incidesse sulla comunità e sul cambiamento per cui lottavamo… e così sono partito nel 1985 per fare il volontario all’estero.

Con chi ha deciso di partire per il Sudamerica?

Con un amico, un altro prete operaio, Piero Nenci.

Ha fatto di sua iniziativa senza accordati con la Chiesa ufficiale, con i vescovi?

Allora la libertà la si prendeva, non si mediava. La libertà si prende e basta. Oggi non è più così.

Il suo impegno in Nicaragua come è iniziato?

Prima di arrivare in Nicaragua siamo stati in Bolivia, dove è successo un pasticciaccio. Eravamo arrivati lì attraverso il frate di Cochabamba, io sono andato nel Chapare con il vescovo di Cochabamba. Nel Chapare, luogo di lotta del Che, la coltivazione della coca e la produzione di cocaina erano una risorsa per i contadini. Nella giungla ricordo una donna che coltivava la coca.

Erano indios? Lo facevano per la sopravvivenza?

Erano indios, contadini; non avevano altri mezzi per la sussistenza…

Che pasticciaccio è successo lì?

Una cosa grave. Il vescovo di Aiquile, una piccola città, disse che non gli interessava più la nostra presenza, perché ci considerava rivoluzionari e quindi destabilizzanti; perciò comunicò al vescovo di Bergamo che non ero desiderato. Avevo già visto la Bolivia e il progetto era positivo, si poteva partire ma questo intoppo all’ultimo momento ce lo impedì.

E allora?

Andammo a Roma a trovare Giulio Girardi (1926-2012; teorico di spicco del dialogo fra marxismo e cristianesimo e poi tra i promotori del movimento Cristiani per il Socialismo e tra i fondatori della nascente Teologia della liberazione ndr.) e lui ci diede la possibilità di andare in Nicaragua.

Con quale progetto?

Il progetto era generico di lavoro col centro Antonio Valdivieso con padre Uriel Molina che è stato uno dei protagonisti del rinnovamento conciliare e uno dei principali teorici dell’incontro tra fede cristiana e rivoluzione in Nicaragua. Negli anni ’70, dalla sua comunità del quartiere Riguero a Managua, uscirono alcuni futuri dirigenti del Fronte sandinista di liberazione nazionale e nel 1980 Molina fondò il centro ecumenico Antonio Valdivieso. Di nostra iniziativa andammo col sindacato Atc, Asociación de trabajadores del campo, prima a Leòn a vedere i posti dove lavorare nelle coltivazioni di cotone; ricordo di avere dormito sul tavolaccio del sindacato. Ricordo che a Leòn i contadini cantavano: Viva la revoluciòn, nonostante fossero passati cinque anni (dalla vittoria rivoluzionaria sandinista ndr). Noi avevamo capito che erano in ritardo; che erano fregati, perché la rivoluzione si fa e non si mendica e loro la stavano idealmente mendicando.

Avevate capito che erano fregati?

Sì.

Nel senso che la rivoluzione non aveva cambiato le condizioni di vita dei contadini? L’organizzazione del nuovo governo rivoluzionario non era riuscita a dare concretezza alle speranze di una nuova vita?

Mio figlio è stato in Nicaragua quattro anni fa. Ha visto la rivoluzione delle opposizioni contro Daniel Ortega; ecco, avevano la maglietta “Levantate campesino!”. Il fatto è che per gli operai la rivoluzione c’era stata, per i contadini no. Io ho visto i campesinos, li ho incontrati nella montagna, ho toccato con mano il fallimento della rivoluzione per loro.

Cioè la rivoluzione ha funzionato per gli operai ma non per i campesinos?

Esatto.

L’avevate già capito nei campi di cotone?

L’avevamo già capito quando l’Associaciòn de la produciòn estatal, Upe, voleva fare dei campesinos, dei soci, dei responsabili quando erano ancora dei dipendenti. Erano cooperative statali, poi con il cambio del regime nel 1990, in zona di guerra le cooperative saltarono tutte, tranne che nella città di Jinotega.

Cosa avete pensato di fronte a questa situazione?

Allora ci trasferimmo in una cooperativa di Estelì. Lì ci diedero la stanza dei cooperatori, del dottore insegnante di Cuba che era andato via da poco. Ci siamo giocati alla morra a chi toccava la branda e io l’ho persa. Lì ci siamo fermati poco, finché Daniel Ortega, il presidente, mi accordò il permesso di andare in zona di guerra con le cooperative di Waslala. Lì i contadini erano stati portati via a forza dalla montagna e finii nella cooperativa San Pablo Kubalì, a Waslala. Mi recai a Waslala con il parroco don Enrique Blandon (lui proveniva dal centro Valdivieso), uno dei pochi preti veramente rivoluzionari.

Come è stato l’inizio?

Ho vissuto la settimana pasquale nella champa, casa di paglia costruita dai contadini per la scuola materna che non era ancora stata inaugurata; e così mi sono innamorato di Waslala e decisi di restare. È successo così che il presidente della repubblica, Ortega, mi diede il permesso di restare a Waslala.

Ci voleva il permesso di Ortega?

Sì, perché gli italiani non potevano restare in zona di guerra.

Cosa faceva a Waslala?

Il prete e il contadino perché ero responsabile della pastorale del lavoro; essendo io contadino per mestiere non potevo che fare questo. Era fine 1985 inizio 1986.

Lavoravo perché la Chiesa fosse essa stessa comunità e fosse fulcro e promotrice di sviluppo umano e sociale.

Erano gli anni del massimo scontro tra le forze rivoluzionarie sandinisti e contras?

Vero, c’era un forte scontro tra le parti sociali della zona. Anche se le comunità nascondevano la realtà di fatto: contras e sandinisti erano delegados de la palabra, i catechisti e noi non lo sapevamo. Quindi raccoglievamo le testimonianze dell’una e dell’altra parte e le cazzate che facevano sia i sandinisti sia i contras. In una stessa famiglia ci poteva essere un figlio contra e uno sandinista e le mamme vedevano i fratelli spararsi l’uno contro l’altro!

Per cazzate intende anche le cose...

... le cose pesanti.

Cosa significava la sua vita quotidiana a Waslala in zona di guerra?

Allora ero perfettamente cosciente di quanto succedeva. Anche le istituzioni, compresa la parrocchia, dovevano scavare trincee, anche padre Ubaldo scavava trincee per difendersi dagli attacchi dei contras. Mi sono schierato a favore dei sandinisti.

Ha mai preso in mano un fucile, ha mai sparato?

Non ho mai sparato. Mi hanno dato un kalashnikov di notte per difendermi dai contras, perché si sapeva che pensavano di attaccare Waslala; anche per quello si scavavano le trincee.

L'avevano messa di guardia?

No, di notte a ogni movimento dovevo stare in campana. Ho visto però che col kalashnikov non dormivo e così alla fine l’ho riconsegnato ed è stato il mio bene perché se i contras, quando hanno attaccato la parrocchia, mi avessero trovato il kalashnikov mi avrebbero fatto fuori. Invece non mi ammazzarono perché non trovarono niente. Io l’avevo già riconsegnato ma la voce che girava era che io ce l’avevo.

Altrimenti i contras l'avrebbero uccisa?

Sì.

Il 18 aprile 1988 i contras la rapirono dopo una messa perché, come dice nel suo libro (Fecero appassire i nostri fiori, Edizioni Qualevita 1993) «...andavo annunciando il Vangelo della pace e denunciando senza paura i loro assassinii. L’assassinio di Neris Robles, fu uno dei tanti, legato e imbavagliato, è stato strappato fuori dalla chiesetta dove stavo celebrando alla comunità di San Josè Jarò. Lo sgozzarono a 200 metri».

Quando fui sequestrato mi portarono via dalla comunità, camminammo per ore nella foresta. La sera obbligarono una donna a cucinarmi l’unico pollo ma io rifiutai di mangiare. E gli amici di Radio Popolare di Milano e l’associazione Italia Nicaragua poi fecero un servizio “E Ubaldo non mangiò il pollo”.

Come l'hanno liberata?

In una maniera sconvolgente. Ero scoraggiato ma poi arrivò una lunga fila di contadini con il parroco don Enrique Blandon e i rappresentanti delle comunità: intonarono canti di libertà attorno a me, incuranti dei soldati armati. Ci fu un alterco con il comandante del drappello, anche molti catechisti erano lì per la mia liberazione. La mattina seguente arrivò il comandante Chapulin in persona. Accuse e controaccuse, pressione della gente e paure d’impopolarità portarono alla mia liberazione verso le 10 del mattino, presente anche di una delegazione nordamericana di Witness for Peace. Chapulin mi disse: Ti lascio libero a un patto, che non parli più di noi.

Lei cosa gli ha risposto?

Al momento, sì. Poi ci ho pensato, non l’ho detto ma l’ho pensato che non potevo non parlare, perché la guerra è guerra, miseria è miseria e loro avevano portato miseria e dolore.

Nel libro Fecero appassire i nostri fiori parla di 53 000 morti 10.000 orfani e 25 giovani menomati su 3,5 milioni di abitanti sono le cifre della guerra di aggressione controrivoluzionaria dei contras?

Sì, e non tutti i morti , feriti, menomati sono stati denunciati, di molti non si è mai saputo nulla. Scomparsi come se non fossero mai stai sulla terra latino-americana….

Nei suoi anni a Waslala, 1985-1991, quanti morti ha visto?

Tanti. Ricordo un compagno che gridava, Viva la revoluciòn mentre Chiara Castellani (leggasi Una lampadina per Kimbau. Le mie storie di chirurgo di guerra dal Nicaragua al Congo raccolte da Mariapia Bonanate di Chiara Castellani, Mondadori, 2004) gli tagliava la gamba in sala operatoria. Chiara Castellani, italiana di Roma e medica che lavorava in ospedale a Managua, finita l’esperienza del Mlal (Movimento laici America latina ora Progettomondo) nella capitale scelse di rimanere in Nicaragua iscrivendosi al Minsa (Ministero della salute nicaraguense). Le accordarono il permesso di rimanere in Nicaragua e di venire all’ospedale di Waslala, disastrato e in zona di guerra, imponendole però l’obbligo di non uscire mai dall’ospedale. Vi consiglio di leggere il suo libro sull’esperienza sua di medico, pur datato ma incredibile.

Nel 1990 è stato sospeso “a divinis”: la Chiesa le ha voltato le spalle.

Sì, mi ha voltato le spalle perché ero contro i contras, supportati e finanziati dagli Stati Uniti, mentre la Chiesa era loro favorevole. Il vescovo della diocesi Bluefields, Salvador Schläffer Berg, mi convocò e disse chiaramente: “Se il Vaticano stringe la vite, sappilo che io tengo per il Vaticano".

Aveva un compito preciso nella parrocchia o lavorava in maniera indipendente dal vescovo?

Non dipendevo dal vescovo ma anche sì.

Cercava di tenere un dialogo?

Perché il Vaticano l'ha sospesa "a divinis"? Per le sue denunce sulle violenze dei contras?

Il fattore è stato politico. Io avevo già dato fastidio in Italia ma non ero l’abate Franzoni quindi non ero il primo della classe; ma in Nicaragua ero conosciuto e visibile non solo là ma anche all’estero per via delle mie azioni in Nicaragua, del mio sequestro e di tutto quello che si faceva in parrocchia e in genere sul territorio; con l’associazione Italia Nicaragua nazionale coordinavo gli italiani che venivano in Nicaragua per supportare i contadini. La mia visibilità era trasversale e le mie posizioni davano molto fastidio alla Chiesa gerarchica del Nicaragua, schierata contro la rivoluzione  e quindi arrivò la sospensione "a divinis” come persona non gradita al clero nicarguense. Io questo non ho potuto giustificarlo perché fu un atto politico e la Chiesa non può fare politica e accettare che siano calpestati i diritti fondamentale delle persone. Rita Monzòn, una delle catechiste di Waslala (e coordinatrice della commissione cristiana per i diritti popolari di Waslala, vedere libro Fecero appassire i nostri fiori, adesso morta), sostenne la mia posizione con forza in ogni luogo dove era possibile dicendo che: “Ubaldo, prete o non prete per noi non conta niente, ciò che conta è che lui abbia camminato con noi nella storia della vita, che abbia camminato nel fango come noi con las botas (gli stivali di gomma), condiviso e lottato con e per Waslala”.

I media, la stampa nicaraguense e italiana parlarono della sua esperienza a Waslala?

I media nicaraguensi diedero molto spazio sia al mio rapimento sia alle mie denunce… Se fossi stato zitto forse non sarenne arrivata la sospensione "a divinis". Anche la stampa italiana si interessò a cio che era successo. Associazioni e radio si interessavano all’operato in Nicaragua con piccole publicazioni e interviste. Quando poi rientrai, le pubblicazioni fatte ridestarono interesse per le antiche questioni legate al Nicaragua. Purtroppo oggi si risente parlare tristemente di Nicaragua: diritti e libertà violate da chi doveva essere il paladino della rivoluzione!

Ha scritto che la sospensione “a divinis” l'ha messa di fronte a una scelta di vita. I contadini le hanno detto: sei uno di noi, resta. È stata la scelta più difficile di tutta la sua vita?

Direi di sì. Tornai in Italia nel 1990. Andai di mia iniziativa a Bergamo dal vescovo Giulio Oggioni. Ero tornato per salutarlo ma anche per spiegare la mia posizione. Mi accompagnarono la catechista Rita Monzòn e il parroco Enrique Blondòn di Waslala per appoggiarmi e il vescovo mi fece leggere la lettera del segretario di Stato del papa, vescovo di Roma, che mi sospendeva "a divinis" per diretta conoscenza del papa.

Erano stati Giovanni Paolo II con Ratzinger prefetto della congregazione per la dottrina della fede a fare fuori lei e tutta la Teologia della liberazione.

Di “questi personaggi” della Chiesa si sono sempre conosciuti gli aspetti pubblici ma di ciò che hanno fatto di oscuro, repressivo e conservatore del proprio potere non solo spirituale ma anche economico si sa ben poco. Nulla o poco è trapelato di ciò che hanno fatto per affossare qualunque nuova strada per una Chiesa nuova aperta al cambiamento. Per quel che mi riguarda ho capito che il vescovo di Bergamo stava dalla parte del Vaticano, non mi difese per niente. Allora ripartii subito per Waslala e ci rimasi fino al 1992. Nell’ottobre 1990 dopo la sconfitta di Ortega alle elezioni, i contras e il partito al potere hanno espulso da Waslala con la violenza me, il parroco padre Enrique, i volontari internazionali, tutti i sospetti filosandinisti e hanno saccheggiato la parrocchia. Io non potevo, secondo il diktat dei contras, stare a Waslala; mi avrebbero ammazzato se fossi tornato a vivere là. Allora rimasi nella capitale; vivevo a Managua ma andavo di nascosto a Waslala per seguire i progetti, perché intanto avevo fondato l’Asociaciòn campesinos Walsala, e per la mia e nostra sicurezza raccontavo balle a me stesso e agli altri nel senso che non davo mai indicazioni giuste su cosa facevo, come mi muovevo o dove andavo a dormire”.

Ha avuto solidarietà da tutto il mondo della chiesa di base e della Teologia della liberazione, Casaldaliga, la comunità del Casale, preti cileni…

Ho avuto molte espressioni di solidarietà nazionale e internazionale: onluss italiane ed estere (che finanziavano progetti a Waslala da Germania, Spagna, Stati Uniti…..), dal vescovo Casaldaliga, difensore degli indios dell’Amazzonia, dai preti cileni, dalle associazione italiane e dai tanti italiani delle brigate del caffè che mi hanno sostenuto.

Nel 1990, alle elezioni, i sandinisti persero le elezioni politiche.

Ero a Managua, fu una grande delusione.

I contras quindi le hanno vietato di tornare a Waslala?

Sapevo che se tornavo mi avrebbero fatto fuori: me l’avevano anche detto in faccia. A un certo punto però era diventato impossibile per me anche vivere in città, dal punto di vista economico; allora decisi di rientrare in Italia.

Il compagno Ortega, rivoluzionario, dopo 40 anni cosa è diventato?

Dopo 40 anni mi è difficile valutare perché non sono stato là in questo tempo. Sono cambiate molte cose. Capisco che il mondo è cambiato e anche la rivoluzione è finita. E Daniel Ortega, andando al potere, ha tradito tutti i principi della rivoluzione. Come dice Giambattista Vico, i corsi e i ricorsi storici sono possibili. Il sandinismo ha fatto tutta una serie di errori che non è possibile fare. Per questo ritengo che Ortega abbia fallito; non c’è futuro nella repressione e nel rinnegare i principi della rivoluzione.

Lei e Ortega vi conoscevate bene?

Sì, mi scrisse anche l’introduzione del libro Fecero appassire i nostri fiori e non per caso ma perché avevamo ottimi rapporti. Lui conosceva la mia storia, io conoscevo la sua. Sono stato a casa sua più volte.

Dopo non vi siete più sentiti?

No. Gli ho scritto una poesia, contro di lui, nel 2005; gli ho detto: Dai, fai qualcosa di rivoluzionario. Non mi ha risposto. Non faceva niente di rivoluzionario. Allora nel 2005 era alleato di Obando y Bravo (vescovo di Managua).

Del suo periodo in Nicaragua chi ricorda con più piacere?

Una delle figure che ricordo con affetto ma anche con grande rispetto è Enrique Blandon, il parroco di Waslala, vero rivoluzionario che mi accolse al mio arrivo a Waslala. Uomo tutto d’un pezzo che credeva nella rivoluzione, nella comunità e nelle persone.

Lei, con una vocazione importante volta a cambiare il mondo, dopo anni di impegno straordinario in Nicaragua, rientra in Italia: questa sua energia come l’ha indirizzata? Si è poi sposato con Claudia Lorenzi, avete avuto due figli; ha lavorato ma ha anche continuato il suo impegno di solidarietà.

La mia vita è cambiata molto. Con Claudia ci eravamo conosciuti in Italia, le dedicai una rosa quando venne al casale di Carletti; quando sono tornato ho lavorato per anni come contadino nel casale Carletti a Frascati. Poi ho deciso di venire a vivere con lei a Riva del Garda dove lei lavorava come insegnante. Abbiamo avuto due figli, Samuele e Damiano, 29 e 25 anni. Abbiamo continuato a lavorare per i progetti di solidarietà internazionale a Waslala con Italia-Nicaragua di Rovereto, che tutt’oggi finanzia il progetto Casa dei Bambini a Waslala. Là abbiamo sviluppato, nel passato con il sostegno della Provincia di Trento, ora solo con il contributo di volontari e donazioni, importanti progetti di sviluppo. Ora a Waslala c’è un importante istituto agrario riconosciuto statale (che porta il mio nome), figlio dei progetti da me coordinati, frequentato da 200 studenti che imparano tecniche agricole per poi sperimentarle nelle finche (proprietà) individuali. Attualmente c’è un importante progetto Casa dei bambini di sostegno a bambini di strada e con situazioni problematiche che purtroppo fatichiamo a sostenere dato che le uniche entrate sono le nostre iniziative e l’autofinanziamento. Sono poi stato per anni nel Comitato progetti nazionale di Altromercato. Sono socio di Mandacarù.

Di cosa viveva in Italia?

Io, che sono stato fondatore di cooperative sociali - a casal Boccaleone, ad esempio, avevo fondato una prima cooperativa di lavori socialmente utili - mi adattai a lavorare nelle cooperative sociali e lì ho scoperto che non sempre nelle cooperative esiste lo spirito solidale... Questa realtà ha fatto sì che mi stufassi di esse. A Verona ho fatto un corso per diventare mediatore di conflitti e così sono diventato mediatore di conflitti in Itea, l’istituto di case popolari del Trentino.

Lei e Claudia vi siete sposati? In chiesa?

In municipio; il mio rapporto con la Chiesa è chiuso. Ho abbandonato ogni forma religiosa perché la Chiesa in nome della religione ha commesso molti errori, preso decisioni sbagliate, dominato ed è diventata non la Chiesa dei poveri che avevano cercato di costruire, ma una Chiesa ricca, una potenza economica dove il potere religioso spesso si fonde con potere politico ed economico, ben lontana dai principi rivoluzionari della Teologia della liberazione. Sono materialista. Noi coltiviamo la verità, la verità viene solo dall’uomo, dalla persona che ricerca.

L’ultima volta che ha detto messa quando è stato?

Sono passati anni. Forse con mia mamma, di nascosto, lontano da tutti, per coprire il suo disagio rispetto alla mia sospensione. Ricordo che lo feci anche in Nicaragua una volta che visitai la comunità, anche se non ne avevo il diritto, su richiesta dei campesinos incontrati in chiesa. Era un segno di una condivisione mai scomparsa, nemmeno con la sospensione "a divinis".

Nel 1980 uscì l’Lp Sandinista dei Clash: cosa ha pensato all’epoca?

Non lo conosco.

Per il titolo del suo libro Fecero appassire i nostri fiori ha usato una frase di un indio maya.

Questo titolo rappresenta ciò che è successo ai nostri ideali: fatti appassire dalla sete di potere economico, dal denaro, dalle guerre e dagli interessi dei poteri forti e dall’imperialismo.

Ha conosciuto Boff?

Ho conosciuto Leonardo Boff in Nicaragua. Persona di grande spessore culturale e politico, che amava e lottava per una Chiesa che aiutasse e sostenesse i poveri a prendere in mano il loro destino lottando contro il capitalismo e la globalizzazione. Anche lui, alla fine, ha lasciato la Chiesa riconoscendo come sempre di più si allontani dai veri principi del cristianesimo.

IL PROGETTO CONTINUA CON LA CASA DEI BAMBINI

ROVERETO. «A Waslala ora c’è un istituto agropecuario intitolato a Ubaldo Gervasoni, finanziato da noi all’inizio ma che ora cammina per conto suo con sovvenzioni pubbliche e private. Come associazione Italia-Nicaragua - racconta Claudia Lorenzi, compagna di una vita di Gervasoni - abbiamo costruito e finanziato la Casa dei bambini, minori che vivono situazioni di grave rischio sociale.

Ci siamo sentiti in questi giorni in video conferenza: la situazione economica è complicata e si somma alla crisi socio-politica del paese. È sempre più difficile reperire i fondi sufficienti per finanziare gli stipendi delle educatrici e della psicologa e solo grazie all'attivazione di genitori e comunità locale si riescono a sostenere. Siamo preoccupati perché se non si riescono a trovare i fondi necessari, in futuro potrebbero essere costretti a chiudere un servizio essenziale».

«A Waslala - spiega Silvia Valduga presidente dell’associazione e nipote di Claudia, che dopo Ubaldo è stata 12 anni a Waslala a continuare il suo lavoro - tante persone ricordano il suo entusiasmo, la sua forza e anche la sua creatività. In tempi difficili è stato capace di far nascere grandi esperienze. Al suo ritorno in Italia, Ubaldo ha contribuito a fondare l'associazione Italia-Nicaragua di Rovereto che per tanti anni ha lavorato con gli amici di Waslala. Ha sostenuto attività e progetti educativi, sociali, agricoli, di prevenzione nell'ambito della salute. Negli ultimi anni ha colto il grido di allarme sull'infanzia sfruttata e oggetto di violenza e ha accompagnato la Fundacion Madre Tierra, nata in seno alle pastorali sociali della parrocchia di Ubaldo e poi resasi indipendente, ad aprire un centro diurno che accoglie bambini e bambine che vivono gravi situazioni di rischio sociale».

Oggi sono tempi difficili per il Nicaragua «e purtroppo anche le risorse che la piccola associazione di Rovereto riesce a raccogliere - dice ancora Silvia Valduga - non sono sufficienti per coprire il bisogno di accompagnamento a tanti bambini e bambine. Ma, come Ubaldo, non ci arrendiamo! La storia di amicizia con Waslala ci rende forti, da loro abbiamo appreso che la vita e i diritti vanno difesi, che il cammino si percorre assieme e che la costanza qualche volta regala sorprese».

Per info o contribuire: www.itanica.it o 392 4088069: 1. Bollettino postale, C/C POSTALE n. 98513377 intestato a Italia-Nicaragua ODV con sede a Rovereto Via M. Cauriol 4

2. Bonifico Bancario, ITALIA-NICARAGUA ODV, IBAN IT 15 P 02008 20802 0000 4086 7112».

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