Una folla all'Auditorium Melotti per ricordare l'avvocato Canestrini
Una folla immensa, che non ha consentito a tutti di entrare all'Auditorium Melotti di Rovereto, oggi pomeriggio per il ricordo laico dell'avvocato Sandro Canestrini. La città di Rovereto, ma non solo, ha reso omaggio all'avvocato deceduto pochi giorni fa a 97 anni. Alla presenza delle messime cariche dell'Ordine degli avvocati, con molti giudici, oltre che ai rappresentanti delle autorità civiche, ha reso omaggio al legale che nella sua lunga carriera ha scritto pagine memorabili di giurisprudenza, dall'arringa per le vittime del Vajont alla famosa arringa per le vittime di Stava, per citarne alcune. In platea anche una rappresentanza degli Schutzen roveretani e di Folgaria, con i quali Canestrini aveva un vero «feeling», e dei quali era amico ed ammiratore sincero.
Il sindaco Valduga, nell'esprimere il cordoglio della città, lo ha ricordato «non solo come figura di spicco del Foro trentino, e roveretano in particolare, ma anche come uomo animato da forte passione politica». Membro della Resistenza, Canestrini è stato consigliere comunale a Rovereto dal 1956 al 1964, «coniugando sempre l'impegno politico con l'impegno professionale nella difesa dei diritti» ha detto Valduga.
Nel corso della cerimonia, sono intervenuti anche i figli, che ne hanno ricordato la figura, rivelandone anche aspetti della vita familiare.
Ecco il ricordo del figlio Duccio, antropologo e docente universitario: «Papà ha iniziato a studiare diritto malvolentieri, perché era affascinato dalla letteratura. È stato suo padre a obbligarlo. Il nonno Luigi era avvocato e divideva lo studio legale con l’amico e collega Angelo Bettini, assassinato dai nazisti nel 1944. A quell’epoca papà aveva ventidue anni, e voleva fare l’epigrafista, gli piacevano follemente il greco e il latino. E poi la narrativa: i classici, i russi, i francesi. Sicché più volte mi ha ribadito di essere stato mandato a studiare legge a pedate nel sedere. Felicissimo, in seguito, di quel suo destino predeterminato: ha sempre detto che fare l’avvocato è il mestiere più bello del mondo. Soprattutto come poi lo ha fatto lui, da Robin Hood della giurisprudenza. Una scelta professionale dominata da un forte senso etico, che non gli ha certo impedito di continuare a leggere saggi e romanzi, scaffalate di libri che trovo ancora sottolineati con matitoni rossi e blu.
Chi ha avuto la fortuna di assistere alle sue arringhe sa che erano infiorate di citazioni letterarie, tratte soprattutto dalla Divina Commedia e dai Promessi sposi. Aveva una passione anche per i poeti, Carducci e D’Annunzio naturalmente, ma anche Guido Gozzano e Ada Negri. Ne citava i versi a memoria, con un sorrisetto compiaciuto. La memoria e la voce per lui erano fondamentali strumenti di lavoro.
È stato un uomo colto e spiritoso, con la battuta pronta, spesso tagliente e provocatoria. Gli piacevano i paradossi. Aveva studiato retorica, cercava similitudini, parallelismi, metafore da infioccare nei suoi discorsi e comizi – perché tali erano – a difesa dei clienti, che lo ascoltavano esterrefatti. Un incubo per molti giudici, che guardavano l’orologio, ma dovevano aspettare che l’avvocato Sandro Canestrini concludesse. Questo al tempo delle arringhe argomentate e torrenziali, prima che il processo penale diventasse tecnico, per non dire tecnicistico, espungendo le disamine sociologiche, spicciandosi e impoverendosi al tempo stesso. La cultura alta e la cultura cosiddetta bassa, per lui, erano un tutt’uno, sulla scia di giganti come Umberto Eco, Oreste del Buono e Dario Fo (di cui fu amico oltre che legale). Di più, aveva certamente intuito l’esistenza di ponti tra la cultura umanistica e quella scientifica, grazie allo zio Alessandro, naturalista, dal quale aveva ereditato una grande curiosità per la natura, con speciale attenzione per il meraviglioso mondo degli insetti: le mantidi religiose, i bruchi, le cavallette, i cervi volanti.
“La vispa Teresa avea tra l’erbetta a volo sorpresa gentil farfalletta...”. Adorava le filastrocche sciocche, i giochi di parole, le barzellette. Come la storia del ciclista calabrese che disarciona con un cazzotto un collega trentino durante una gara in montagna perché questi lo tallona imitando il suono del campanello: teteritiritì. Esasperato, non aveva capito che teteritiritì non era una presa in giro, ma la domanda di uno sportivo sfinito!
E qui veniamo al dialetto roveretano, che papà parlava correntemente e molto volentieri. Per ragioni ideali e personali certamente aveva poi sposato l’Alto Adige e la sua cultura, ma non ha mai cessato di sentirsi lagarino. Senza ossessioni identitarie, intendiamoci, perché aborriva i nazionalismi e i patriottismi, figuriamoci i regionalismi. Era un sentimento di appartenenza semplice: alle gelide acque del Leno dove andavamo a tuffarci; alle montagne dove finì per consumarsi la cartilagine delle ginocchia, in traversate esagerate tipo dallo Stivo al Cornetto, con noi fratelli oppure con i clienti, rassegnati a esporre i loro guai scarpinando. Anche l’amore per il dialetto papà lo doveva al nonno Luigi, consigliere comunale socialista, che aveva presentato una mozione, poi approvata, per introdurre il bilinguismo in Municipio: italiano e dialèt.
Insomma è stato un uomo “glocal” ante litteram, locale e globale, attento al piccolo mondo roveretano e ai grandi movimenti politici, sociali e culturali del Pianeta. Idealista e per certi aspetti epicureo, post-comunista, nonviolento e pacifista. L’ultimo libro che mi ha regalato, preso dalla sua biblioteca, è una storia delle religioni scritta da Ambrogio Donini, accademico dichiaratamente marxista, durante il fascismo, all’Università di Roma.
Papà, un materialista con una spiritualità ricchissima».