Diario di 55 giorni contro il Covid Le infermiere di Rianimazione: "Paura, ma il nostro posto è qui"

di Luisa Pizzini

Ora riescono anche a sorridere dietro le mascherine che lasciano intravedere soltanto i loro sguardi le tre infermiere coordinatrici della terapia intensiva 1 e 2 al Covid center di Rovereto. E questo è uno dei segnali che la situazione coronavirus sta migliorando in Trentino, che finalmente la pressione sul reparto riorganizzato in poche ore il 6 marzo scorso si è allentata. La frenesia dei giorni in cui i pazienti gravi arrivavano «come se piovessero» ha lasciato il posto ad un po’ di calma.

Maria Vittoria Modena, Michela Galvagni e Cristina Manica, coordinatrici della rianimazione 1 e 2 al Santa Maria del Carmine ai tempi del cornovavirus, sono tanto diverse tra di loro quanto affiatate.
«Siamo al 55esimo giorno di Covid», precisano guardando il calendario nell’ufficio, in reparto, che scandisce il tempo dell’emergenza.

E come sta andando, secondo i programmi?

«Non ne avevamo fatto di programmi, è stato un vivere giorno per giorno. L’impennata è stata violenta, l’uscita lunga».

Quanti pazienti avete ora in terapia intensiva?

«Sono dieci (il 30 aprile, Ndr). E da una settimana non ne arrivano».

C’è la fase 2, la riapertura. Avete paura che i ricoveri tornino a salire?

«La paura del ritorno c’è. Lo mettiamo in conto. Tant’è che non abbiamo smantellato nulla qui».

Facciamo un salto indietro: quando avete avuto la percezione di cosa stava accadendo? Le prime notizie dalla Cina vi avevano preparato?

«No. Perché non è la prima volta che parte un’epidemia in Cina e non arriva qui. Poi invece c’è stato il primo caso a Lodi e abbiamo pensato che si stava avvicinando.
Poi il caso della signora a Trento ed abbiamo capito che ce l’avevamo in casa».

A quel punto eravate preparati?

«È stato il 6 marzo che ci hanno dato comunicazione ufficiale del fatto che l’ospedale di Rovereto sarebbe stato il Covid center del Trentino. Era venerdì pomeriggio. Da lì è partita la gestione dei sospetti e nell’arco di poche ore, quella notte, è arrivato il primo paziente da Cles».

Proiettati in poche ore dal primo caso al primo ricovero Covid.

«Abbiamo iniziato a smontare armadi, disegnare percorsi, individuare i posti per la vestizione e la svestizione, mettere carrelli, spostare materiali e cambiare la turnistica, per potenziare i turni. È stata una corsa contro il tempo per rivoluzionare il reparto ed essere pronti all’arrivo del primo paziente».

Che è arrivato quella stessa notte da Cles.

«E da lì è stato continuo, in rapida sequenza fino al 25esimo. Sembrava che piovessero pazienti ad un certo punto. Siamo arrivati a predisporre 32 posti».

E in quella fase la terapia intensiva dei Covid era solo a Rovereto.

«Sì, poi quando si è capito che i numeri erano molto alti allora anche Trento si è attrezzato».

Voi siete abituati alla terapia intensiva, ma com’è stato lavorare in questo modo?

«Il massimo afflusso di pazienti in una terapia intensiva è già un fatto importante, ma un massimo afflusso di pazienti infetti di questo tipo credo sia uno scenario che neanche nelle simulazioni più fantascientifiche avremmo pensato. Se non avessi visto con i miei occhi non ci avrei creduto. Una cosa da non credere quello che é stato messo in piedi, un lavoro immane».

Avete avuto paura?

«Abbiamo avuto diversi tipi di paura. Da quella di ammalarsi e portare il virus a casa, a quella di non farcela a tenere in piedi il turno o di non avere più ventilatori, soprattutto dopo quello che avevamo visto in Lombardia».

Pochi sanitari sono stati contagiati dei 130 che ruotano attorno a questo reparto Covid...

«Non è ancora finita, ma fino ad ora hanno funzionato i percorsi, gli spazi comuni, i dispositivi».

E i pazienti che migliorano e lasciano il reparto sono una soddisfazione per voi.

«Vedere che hanno superato la fase critica è bello e motivante. E poi questa emergenza ha tirato fuori i lati positivi nascosti delle persone: noi abbiamo scoperto di avere dei leader che neanche immaginavamo».

Sono situazioni in cui il gruppo fa la differenza.

«Tutti hanno dato la loro disponibilità, una cosa eccezionale e non scontata».

Ed anche la gente da fuori vi ha sostenuto.

«È arrivato di tutto: pizze, colombe, dolci. E dopo aver lavorato sei o sette ore bardati trovare qualcosa da mangiare era molto piacevole».

Torneremo alla normalità?

«Non subito. Dovremo trovare strategie di convivenza con il virus e recuperare i rapporti umani non sarà facile. Dopo un mese che lavoravo qui dentro e non andavano nemmeno a fare la spesa, l’altro giorno è stato svilente andare in negozio e vedere come le persone ti evitano. È una delle parti più difficili».

Cosa ricorderete di questi pazienti Covid?

«Dei primi cinque i nomi, continuavamo a chiamarli. Poi erano troppi per ricordarli. Loro invece non si ricorderanno di noi: un po’ perché sono storditi dai medicinali, un po’ perché siamo tutti bardati. E poi li ricorderemo per l’assenza dei loro familiari: una situazione senza precedenti».

Mai pensato di cambiare lavoro?

«Tanta voglia di postare quell’hastag #iorestoacasa, ma il nostro posto è qui. Però ammettiamo di averlo pensato nei momenti in cui sembrava di stare di fronte a qualcosa più grande di noi».

Cosa vi lascia quest’esperienza?

«Se in tempo di pace si trovano ostacoli nel fare qualcosa di diverso e nuovo, quest’emergenza ha dimostrato che si può comunque fare», chiosa Michela. «Io ho imparato quali sono le vere priorità: il gruppo nel lavoro, le relazioni familiari fuori di qui. L’emergenza fa apprezzare cose che prima non tenevi in considerazione» le fa eco Maria Vittoria. «Sono stata piacevolmente sorpresa dalla disponibilità di tutti - ribadisce Cristina -. Ho riscoperto alcune persone».

Le tre coordinatrici salutano. Per oggi hanno finito. Le aspetta una doccia ed una notte di riposo in attesa di ricominciare un’altra battaglia contro il virus che ha stravolto le vite di tutti. Ma sicuramente, le loro, un po’ di più.

(Nella foto da sinistra: Maria Vittoria Modena, Michela Galvagni, Cristina Manica)

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