Femminicidio Perraro, l'ultimo atto: il prossimo 20 aprile la Cassazione si pronuncerà sull’ergastolo
La suprema corte dovrà decidere se annullare il carcere a vita e rimandare tutto a nuove udienze: gli avvocati puntano sul vizio di procedura: “Il processo è tutto da rifare”
IL FATTO Uccisa di botte
L'ADDIO Ultimo saluto a Eleonora
FEMMINICIDI Una lunga scia di sangue
ROVERETO. Il 20 aprile Marco Manfrini saprà, in maniera definitiva, come sarà la sua vita: se dietro le sbarre fino alla fine o se potrà ancora sperare in un clamoroso riavvolgimento del nastro e dunque ripetere il processo per omicidio. In verità, l'ultimo verdetto, quello della corte di cassazione, avrebbe dovuto arrivare la scorsa settimana ma l'udienza a Roma è stata rinviata, appunto, al 20 aprile. Quel giorno i giudici supremi decideranno se annullare la sentenza della corte d'assise d'appello.
Una speranza che il collegio difensivo - gli avvocati Elena Cainelli e Luigi Campone - non ritiene affatto vana. L'artigiano roveretano è ritenuto colpevole di aver ammazzato brutalmente la moglie Eleonora Perraro in una notte di settembre di quattro anni fa. Per i giudici di primo e secondo grado non si sono dubbi: ha commesso un efferato uxoricidio e merita l'ergastolo.
La difesa, però, ha deciso di andare fino in fondo, chiedendo alla suprema corte di cancellare il verdetto perché viziato da alcuni aspetti che potrebbero essere risolti con un nuovo processo. Ripartendo da zero, insomma, e analizzando piste alternative e dettagli che per i due legali non sarebbero stati presi in considerazione con dovuta attenzione come, ad esempio, la cause della morte che secondo i patrocinatori dell'uomo non sono mai state chiarite davvero. Insomma, gli avvocati di Manfrini vogliono salvare il loro assistito dal «fine pena mai» confidando in un colpo di spugna da parte degli «ermellini» romani. Riportando loro, per altro, le richieste formulate nelle arringhe in assise.
Soprattutto richiamando l'istanza che chiedeva l'annullamento del primo processo e che non è stata accolta dai giudici di appello. In questo caso si parla di due membri laici della corte assenti in due udienze di primo grado durante l'audizione dei testimoni.
«Nel nostro processo - questa la tesi del collegio difensivo - la forma conta molto. Il più delle volte conta più della sostanza. E qui emerge un dato inconfutabile: due giudici popolari non erano presenti alle udienze indicate. Nel nostro ordinamento ci sono regole scritte e devono essere rispettate». Si contesta, dunque, l'irregolarità della convocazione del collegio giudicante e questo passaggio è considerato dai difensori un vizio grave. L'eccezione formale, come detto, è stata rigettata un anno fa in secondo grado diventando, chiaramente, l'ossatura del ricorso per cassazione. Dall'altra parte della barricata, invece, al processo di appello si è puntato sull'impianto dell'accusa ritenuto valido e logico.
Tanto la pm Maria Teresa Rughini che i legali delle parti civili hanno rivendicato la forza delle prove certe come la presenza dell'imputato sul luogo del delitto, il suo Dna e il suo sangue sul corpo martoriato della vittima e segnali di lite violenta. E poi hanno elencato gli indizi gravi, precisi e concordanti che vanno tutti nella stessa direzione. Rigettando, tra l'altro, la possibilità di ricondurre la responsabilità al terzo uomo. La vicenda giudiziaria, adesso, passa all'ultimo grado dove la difesa contesterà anche la mancata nomina di un perito super partes per accertare le cause della morte: «Versioni contrastanti e per questo abbiamo insistito affinché si incaricasse un esperto terzo. Non si è superata la soglia dell'"al di là del ragionevole dubbio"».