Arte / Il caso

Monet venduto, l'erario vuole 3 milioni di euro: il quadro comprato da un ex manager della Marangoni

È stato comprato per un milione e mezzo e rivenduto per 6,5 milioni. Per i giudici della Cassazione si devono pagare le tasse: rigettato il ricorso della figlia di Osvaldo Bastoni 

ROVERETO. Per quel quadro di Monet acquistato per un milione e mezzo di euro nel 2006 e rivenduto dopo sette anni a 6, 5 milioni si devono pagare le tasse. È quanto ha stabilito la corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso contro l'Agenzia delle entrate presentato da Ilaria Bastoni, la figlia di Osvaldo (ex manager della Marangoni Pneumatici scomparso a 86 anni nel 2020). Per quell'affare, la stessa procura aveva portato a processo il collezionista d'arte con l'accusa di evasione fiscale.

Dal punto di vista penale, però, la questione si è chiusa con l'estinzione del reato, proprio perché l'imputato è venuto a mancare. E, a dire il vero, anche la commissione tributaria provinciale non aveva ravvisato illeciti. Di avviso opposto, nel 2022, è stata invece la commissione regionale, l'appello fiscale per dire, che ha invece inquadrato l'attività in campo artistico dell'ex manager come «commerciale non abituale» e, in particolare, come «speculazione occasionale» e quindi generatrice di redditi diversi e dunque tassabili.

La figlia, ed erede del collezionista roveretano, ha impugnato la decisione in Cassazione che, però, ha rigettato il ricorso. E stiamo parlando di cifre elevate, tre milioni di euro. Quella passione per i quadri d'autore - che Osvaldo Bastoni ha coltivato per anni, anche investendo i cinque miliardi di vecchie lire derivati dalla causa avuta con la Marangoni - alla fine ricade sulla figlia.

E tutto per colpa di quel Monet comperato d'occasione e ceduto ad un prezzo cinque volte maggiore. Un guadagno importante, quindi, che secondo la giustizia fiscale deve portare soldi anche all'erario. E a nulla è valsa la tesi della difesa che, appunto, ha insistito negli anni sullo status di collezionista e di non commerciante d'arte. Un distinguo non certo da poco visto che, nel primo caso, rientra nella collezione privata e dunque senza fini di lucro. E che Osvaldo Bastoni fosse un grandissimo appassionato di tele preziose in città e nel mondo lo sapevano tutti. Quel Monet venduto ad un altro collezionista, però, secondo la cassazione doveva pegno alle tasse di Stato. E così sarà.

A nulla, infatti, è valsa la contestazione che tutte le compravendite di quadri fossero finalizzate solo ad arricchire un patrimonio privato da gustarsi tra le mura domestiche e non a creare un vero e proprio mercato.

«Bastoni - ricordano gli ermellini - aveva ammesso che, nel 2013, oltre ad aver venduto l'opera d'arte di Monet aveva anche acquistato tre opere d'arte, ancora in suo possesso, da Sotheby's e aveva permutato quattro quadri di Segantini con una di Gauguin. Rilevava, altresì, che anche negli anni antecedenti e in quelli successivi, il Bastoni aveva compravenduto numerose altre opere, sempre per il tramite di case d'aste di prestigio mondiale, svolgenti naturalmente attività commerciale».

I giudici, ovviamente, si rifanno alla sentenza della commissione tributaria regionale che ha ribadito come «Bastoni non poteva considerarsi un commerciante d'opere d'arte ma rilevava che molte opere di sua proprietà erano state esposte al Mart e in musei americani, ciò che avrebbe comportato un incremento di valore di tali opere, che erano state poi rivendute dopo che esse avevano raggiunto quotazioni superiori al prezzo d'acquisto».

La commissione ha quindi ritenuto che Bastoni, pur essendo un collezionista, non si fosse dedicato al solo accumulo di opere ma avesse svolto attività tesa alla loro valorizzazione e al loro scambio, allorché ciò fosse apparso conveniente economicamente.

«Da tali circostanze - ribadisce quindi la Cassazione - la commissione tributaria ha tratto la convinzione che, sebbene il collezionista non svolgesse abitualmente attività imprenditoriale-commerciale, egli aveva però concluso compravendite e altri negozi intesi ad accrescere il valore complessivo delle opere che ne formavano oggetto e, dunque, non soltanto per contemplarne la bellezza o soddisfare il proprio gusto estetico o per un fine culturale. Riteneva quindi che questa attività fosse da considerare come attività commerciale non abituale e, in particolare, come "speculazione occasionale" e, come tale, suscettibile di generare "redditi diversi" assoggettabili a imposizione».

Oltre a dover pagare le tasse, ovviamente, l'erede deve soddisfare anche le spese di giudizio sostenute dall'Agenzia delle entrate: 12mila euro.

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