Vera Gheno, sociolinguista: «I ragazzi sono aperti: rieduchiamo gli adulti»
L’analisi dell’esperta: «Tutta la nostra realtà è centrata sul maschile, a partire dalla lingua. Ora nei libri di scuola c’è più attenzione alla diversità in tutti i sensi, a un riequilibrio fra i generi»
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TRENTO. È la rivoluzione del linguaggio, da maschile a inclusivo: ministro e ministra, avvocato ed avvocata, architetto ed architetta. Una forzatura? No. E non è neppure una scelta femminista: semplicemente, le parole declinate al femminile non esistevano perché mancavano le donne che ricoprivano determinati incarichi.
«Ricordiamocelo: la lingua, e la società, si cambiano da dentro e dal basso, a partire dai nostri costumi - linguistici e sociali - individuali»: scrive la sociolinguista Vera Gheno in "Chiamami così. Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo". Si parte dal linguaggio per abbattere il muro della diversità in senso lato, diversità che può essere di genere, di cultura, dovuta a disabilità, solo per fare qualche esempio.
Vera Gheno, lei sostiene che la lingua è costruita su base maschile, come le città, e che anche la medicina ha l'occhio maschile. Tutto ciò che ci circonda, dunque, è "uomo"?
Faccio la controdomanda: non è forse vero che tutta la nostra realtà è centrata sul maschile? Basta aprire un libro di storia, di filosofia, un'antologia, oppure rendersi conto di come una parte della nostra società vive come ospite della sua stessa società.
Sono scomode le porte degli uffici, troppo pesanti per le donne; sono scomode le predelle dei treni ad alta velocità, progettate per una falcata di un uomo di un metro e ottanta e non per una donna, per un bambino o per un anziano. È una società un po' ostile a tutto ciò che non è parametrato su questo Uomo Vitruviano in salsa Le Corbusier... Tutto questo androcentrismo non può che partorire una lingua altrettanto androcentrica. Che non vuol dire che è sbagliata, ma nel corso di millenni si è formata ed evoluta in un contesto in cui c'è una preponderanza maschile.
L'androcentrismo è caratteristica solo della lingua italiana?
No, questo discorso si può estendere a qualsiasi lingua. Per quanto ci siano esempi di micro società matriarcali, come nella Sardegna storica, non abbiamo a livello di antropologia immagini ed esempi di società matriarcali su larga scala e non possiamo sapere se questo tipo di società avrebbe partorito una lingua ginocentrica.
Nei libri su cui studiavamo, si parla di decenni fa, erano tanti i nomi maschili nella storia, nella scienza, nella letteratura: qualcosa è cambiato negli ultimi anni anche nei testi scolastici?
Sì, qualcosa c'è. Negli anni Novanta il "Progetto Polite" ( Pari Opportunità e Libri di Testo, ndr) si occupava di una rideterminazione e di un riequilibrio di genere all'interno dei testi scolastici. Recentemente c'è stato un progetto di Zanichelli al quale ho partecipato con un piccolo saggio che si chiama "Obiettivo 10 in parità". Ma varie case editrici scolastiche, come anche Erickson, hanno iniziato a fare più caso alla diversità in tutti i sensi, ad un riequilibrio fra i generi, ad una maggiore presenza di ogni tipo di diversità.
Cultura e inclusività a partire dalla scuola è possibile? Lei è docente universitaria e si confronta spesso con gli studenti delle superiori, oltre che con specialisti e studiosi: cosa può fare la scuola per favorire le parole che includono?
La scuola può fare molto. Ci sono due contesti principali in cui gli esseri umani "imparano cose": la scuola e la formazione sul posto di lavoro. Nella nostra vita possiamo fruire liberamente di prodotti culturali scegliendo quelli che più ci piacciono, ma non andiamo spesso fuori dalla nostra comfort zone. Ciò significa che, finita la scuola, ci capiterà sempre meno di studiare argomenti che magari non ci toccano da vicino, non ci interessano. Quindi la scuola è essenziale da questo punto di vista, perché apre la testa.
I ragazzi sono fantastici, elastici, aperti al cambiamento, curiosi, casinari e pieni di voglia di capire e di confrontarsi. E, soprattutto, per loro la diversità è qualcosa di molto più naturale che per le generazioni precedenti. Siamo sempre noi, generazioni precedenti, che cerchiamo di ridurre il cespuglio disordinato a una siepe tagliata ad angolo retto; invece di guidare il cespuglio a crescere in maniera ordinata ma libera cerchiamo di sagomarlo come pensiamo che sia giusto che debba essere. I ragazzi istintivamente sul fattore diversità sono molto attenti: siamo noi adulti che sottovalutiamo il loro grado di attenzione e di apertura su questi temi.
Allora il problema non sono gli studenti…
Ciò che è importante a scuola non è tanto educare i ragazzi quanto educare ed istruire i professori. Ognuno di noi è stato educato ed è cresciuto in un certo contesto socio-culturale. Guardare le cose da un altro punto di vista è difficile. Penso alle questioni di genere. In tutte le scuole in cui vado, dal nord al sud Italia, c'è una costante: almeno un paio di persone per ogni liceo mi chiedono l'autografo sul libro con dedica non al loro nome anagrafico ma al loro nome di elezione. Sempre più giovani si fanno domande sull'identità di genere, sul loro genere di appartenenza. Sempre più persone si manifestano come non binarie. Se per i giovani questa cosa è naturale e comprensibile, per gli adulti in molti casi siamo a livello di diavolerie, di moda, di cose incomprensibili ed inaccettabili perché, sostengono, la biologia dice che i sessi sono due. Dunque c'è un grande bisogno di divulgazione fra gli adulti perché tra i giovani questi sono temi dell'ordine del giorno.
L'apertura dei giovani fa ben sperare in un futuro di inclusività. Giusto?
Dico sempre a mia figlia, che ha 15 anni, che non deve dare per scontato di continuare a coltivare la sua fluidità di genere, di orientamento sessuale ed affettivo. Lei, come molti suoi coetanei, pensa che questo sia un aspetto naturale della vita e che nessuno lo possa toccare. Invece noi adulti molto spesso tentiamo di rimettere questi ragazzi nelle loro nicchie di maschio - femmina, etero ed omosessuale, anche con l'idea di preservarli da possibili pericoli sociali, da stigmatizzazioni. Tentiamo di "normalizzarli".
Cito un passo del suo libro: «Per fare meglio si parte da sé: il primo passo non è tenere alto il ditino e indicare le cose sbagliate, ma cambiare prima di tutto i propri costumi sociali, culturali e linguistici. Ed è una fatica».
Sì, confermo, è una fatica. Una delle ragazze presenti in sala in un incontro di qualche giorno fa mi ha chiesto come si fa a fare cambiare idea alle persone. Le ho risposto che è molto difficile, ma che non bisogna ragionare su come far cambiare idea, bensì farsi promotori di un certo modo di pensare, mettendolo in atto, vivendolo, agendolo, e in questo modo attrarre a sé persone che già si sono fatte domande su un certo tema e vedono la possibilità di capire meglio. Per esempio, il mio scopo non è andare dal razzista, dall'omofobo, dal transfobico e dire di cambiare atteggiamento. L'obiettivo è di dare alle persone che si stanno ponendo delle domande strumenti di comprensione di sé, degli altri e del mondo.