Vende un «catorcio» ed intasca 1.700 euro: denunciato, ma poi assolto
Ha piazzato un «chiodo» via Internet, si è intascato 700 euro e alla fine, dopo due condanne, è stato assolto dalla corte di cassazione. Quella truffa online, insomma, non c’è mai stata e, tutt’al più, si poteva parlare di inadempimento contrattuale, materia per il giudice civile e non certo per quello penale.
Il malcapitato e incauto acquirente, alla fine, è rimasto con un pugno di mosche. Qualcosa, in verità, ha recuperato (dei 1.700 euro spesi mille li ha ricevuti indietro) ma quell’affare scoperto tra le pieghe delle pagine web alla fine gli è costato comunque caro. Il venditore, invece, dopo aver rischiato la galera per aver messo sul mercato merce, diciamo così, «avariata» è uscito indenne dalle forche caudine della giustizia italiana.
L’imputato - A. V. di 36 anni - era stato accusato di truffa per aver messo in vendita su un sito Internet una moto descritta come perfettamente funzionante, revisionata e con il motore rifatto. L’appassionato centauro dall’altra parte del video ha subodorato un’occasione e ha pagato il veicolo 1.700 euro. Peccato, però, che quando ne è entrato in possesso la «favolosa» due ruote nemmeno si accendeva: un rottame.
Ha così ricontattato il primo proprietario che gli ha restituito solo mille euro. Convintosi di essere stato fregato ha quindi denunciato l’uomo che è finito a processo per truffa. In aula, però, il reato è stato riqualificato in appropriazione inedita per quei 700 euro che il venditore si era tenuto senza mai renderli. E il giudice roveretano ha condannato A. V. (che tra l’altro ha diversi precedenti) ma la difesa ha impugnato la sentenza lamentando la mancata concessione dei termini a difesa per studiare il nuovo caso visto che il reato contestato era nel frattempo passato da truffa ad appropriazione indebita. Ma, soprattutto, ha puntato il dito sulla risoluzione del contratto e gli eventuali mancati adempimenti degli obblighi assunti, competenza del tribunale civile e non, come detto, di quello penale.
La corte d’appello ha confermato il primo grado e quindi si è arrivati fino alla cassazione. Che ha rigetto il primo ricorso (la presunta violazione del diritto di difesa) ma ha preso per buone le altre doglianze.
«L’omesso versamento dell’intero importo delle somme che le parti avevano convenuto di porre a carico del ricorrente, - scrivono in sentenza gli ermellini romani - costituisce mero inadempimento dell’obbligazione civilistica assunta, in difetto del presupposto dell’altruità del denaro non versato. Tale principio è stato già affermato dalla giurisprudenza di legittimità quando, ad esempio, ha ritenuto che la “mancata restituzione della caparra non configura l’ipotesi criminosa di cui all’art. 646 del codice penale difettando il presupposto essenziale dell’impossessamento di cosa altrui, poiché la somma data a tale titolo passa nel patrimonio dell’accipiens, il quale ne diventa proprietario ed è tenuto in caso di adempimento ad imputarla alla prestazione dovutagli e in caso di inadempimento alla restituzione di denaro o cose dello stesso genere in quantità doppia”».
Di qui l’accoglimento del ricorso e l’annullamento, senza rinvio, della sentenza. Condanna cancellata, dunque, ma soprattutto nessun risarcimento alla parte lesa. «L’insussistenza del fatto penalmente rilevante e di una valida pronuncia di condanna, presupposto indefettibile per la condanna dell’imputato in favore della parte civile, - spiega infatti la cassazione - comporta la revoca delle statuizioni civili». N.G.