La morte di Matteo Tenni, ricostruzioni agli antipodi: acceso confronto sulla richiesta di archiviazione
Il giudice si è riservato alcuni giorni per decidere se chiudere il caso o se affidarlo al tribunale, a fronte delle ricostruzioni divergenti sul dramma del 9 aprile scorso a Pilcante. Da un lato le conclusioni del pm e della difesa del carabiniere che sparò (azione obbligata perché l'uomo brandiva un'accetta), dall'altro quelle del legale della famiglia della vittima secondo il quale la tragedia si poteva evitare. Solo una disgrazia o altro? Da accertare il motivo e la direzione dello sparo
PARERI OPPOSTI La famiglia impugna la richiesta di archiviazione
LA PROCURA Intercettato da un movimento un colpo indirizzato dal carabiniere verso terra
ROVERETO. «Cristo, stai fermo!». É questa una delle frasi registrata dalla bodycam che indossava uno dei due carabinieri di Ala la sera dell'uccisione di Matteo Tenni a Pilcante. Una delle tante estrapolate dai periti che hanno analizzato i filmati di quei momenti concitati finiti in tragedia.
Per quella morte la procura ha chiesto l'archiviazione e la parte civile si è ovviamente opposta.
Giovedì pomeriggio, dunque, a palazzo di giustizia il gip Mariateresa Dieni doveva decidere se chiudere il caso o se affidare la questione al tribunale.
Si è riservata alcuni giorni per decidere e, d'altro canto, in aula la ricostruzione delle parti è stata diametralmente opposta.
La pm Viviana Del Tedesco e l'avvocato difensore Marcello Paiar hanno parlato di un'azione di fatto obbligata, di uno sparo partito per evitare di essere colpiti dall'accetta.
Per l'avvocato della mamma della vittima Annamaria Cavagna, Andrea de Bertolini, quel colpo di pistola si poteva invece assolutamente evitare perché l'uomo con l'accetta voleva colpire la macchina.
In mezzo, chiaramente, ci sono perizie (cinque per la parte civile e due per la difesa) e dettagli che possono avvalorare una testi piuttosto che l'altra. Iniziando proprio dal proiettile che ha colpito alla gamba Tenni facendolo morire dissanguato.
Per il legale di A. A. lo sparo era indirizzato al piede destro ma nelle fasi concitate Matteo avrebbe alzato l'arto ricevendo il proiettile nel ginocchio.
Il foro d'entrata, d'altro canto, era più basso rispetto a quello d'uscita.
E questo, secondo la famiglia, sarebbe dovuto alla deviazione ricevuta dal femore.
Lo scontro, davanti al gip, è stato puntiglioso.
Proprio perché le ricostruzioni sono agli antipodi. Anche sulla distanza del carabiniere dalla vittima ci sono incongruenze: per la difesa era a un metro, per la parte civile a cinque.
Dubbi pure sullo stesso sparo: per Paiar era diretto al piede dopo che A. A., vedendo il collega in balia di Tenni che brandiva l'accetta, avrebbe fatto il giro della macchina già colpita con tre fendenti e poi, temendo per la propria vita, avrebbe sparato in terra.
Per de Bertolini, invece, sarebbe stato uno sparo diretto, come detto deviato dal femore.
La difesa, però, ha parlato di proiettili particolari - calibro 9 a doppia camicia rinforzata - che non si deformerebbero e che un osso non riuscirebbe a spostare.
Anche i colpi sentiti sono stati oggetto di discussione: tre, corrispondenti all'ascia contro la macchina dei carabinieri, più uno che, per la procura, sarebbe l'arma bianca caduta a terra e allontanata con un calcio spingendola nell'erba.
Rumori, si badi bene, registrati dalla bodycam e, almeno uno, non percepito dall'orecchio umano.
L'ago della bilancia, però, rimane lo sparo.
«Il carabiniere ha agito nell'esercizio delle sue funzioni usando l'arma quando strettamente necessario. - spiega l'avvocato Marcello Paiar - Era l'unico modo possibile di agire. Per questo non ravvisiamo alcuna necessità di proseguire e confidiamo nell'archiviazione».
In merito alle contestazioni circa le indagini, condotte inizialmente dagli stessi carabinieri e dunque, in questo caso, contrarie a quanto stabilito dalla corte europea, il legale di A. A. ribadisce che «i militari si sono occupati solo dei primi accertamenti ma l'inchiesta è stata portata avanti dalla polizia giudiziaria e dalla polizia di Stato».
L'avvocato Andrea de Bertolini, per contro, auspica che questa disgrazia venga discussa in tribunale, con testimoni e contraddittori tra consulenti.
«La nostra opposizione all'archiviazione è maturata per senso di giustizia, non per emotività o vendetta. E sulla base delle evidenze fattuali la nostra ricostruzione è di segno opposto rispetto a quelle della procura e della parte civile. Questa tragedia, per noi, poteva essere evitata perché la posizione del carabinieri è penalmente rilevante».
La parola, adesso, passa alla gip Mariateresa Dieni che dovrà valutare se accogliere la richiesta della pm Viviana del Tedesco e archiviare il caso oppure se affidarlo al tribunale.
Alla udienza ha partecipato anche la mamma di Tenni.
«Questa udienza è iniziata oggi alle 2, come 45 anni fa, quando è nato Matteo. Ed è pure il giorno della memoria. Non cerco vendetta, tanto non ho più niente da perdere, ma voglio giustizia per le tante mamme che hanno un figlio con problemi che non viene seguito».
Annamaria Cavagna ha seguito finché ce l'ha fatta l'udienza.
Ma i contraddittori giuridici con ricorso a cavilli e codici l'hanno stancata. E così, dopo un paio d'ore, è uscita sul corridoio di palazzo di giustizia appoggiata alla stampella.
«Mi torna ancora in mente quel momento», racconta senza lasciarsi andare allo sconforto.
É una donna forte, ancorché provata, ma non le è piaciuto quel non essere stata ascoltata.
«Quella donna (la pm, ndr) non ha creduto a quello che ho visto, non mi ha ascoltata. Anche quando mi ha interrogata ho provato a spiegarle chi era Matteo e cos'è successo quel giorno».
Quel giorno era il 9 aprile 2021. Una data che si porterà appresso per sempre.
Perché a quel ragazzone malato ha voluto davvero bene.
Un figlio che da adulto è stato colpito da una patologia mentale che l'ha cambiato radicalmente.
Alternando fasi di vita tranquilla e felice a momenti di buio e allucinazioni.
Un'esistenza difficile, da capire prima ancora che da condividere.
«Era una brava persona, era felice. Ma si è ammalato dopo, non è nato così».
Alcuni giorni dopo la tragedia ancora non si capacitava di quanto successo.
«Lo ripeteva Matteo: sono nato sano, mi sono malato dopo. Era buono, buono, buono...».
Annamaria, come detto, ci ha provato a lungo a far sentire la sua voce. In fin dei conti lei era l'unica presente, oltre ai due carabinieri, sulla scena.
Perché era nel cortile di casa sua, a Pilcante, e stava aspettando Matteo per la cena.
Ha raccontato più volte quel maledetto pomeriggio.
«Me lo ricordo benissimo ma non mi credono».
Soprattutto ha sempre parlato del figlio come una persona buona. Con lei, almeno, non ha mai alzato le mani e nemmeno la voce. Tutt'al più la chiamava «bruta vecia», con affetto.
Giovedì, nonostante la difficoltà che avrebbe chiunque a seguire un'udienza piena di tecnicismi e di versioni diametralmente opposte, ha voluto esserci. Fa fatica a camminare, deve accompagnarsi con una stampella, ma questo non limita la sua voglia di cercare la verità, di capire perché è successo quello che è successo.
«Non cambia nulla, ma voglio almeno sapere».
[nella foto, uno degli striscioni esposti giovedì davanti al tribunale da alcuni attivisti che chiedono che sia respinta l'archiviazione)