Il primo hospice del Trentino compie 10 anni: dal pregiudizio alla dignità del lutto, la storia dell’«Amedeo Bettini» di Mori
All’apertura, presso la casa di riposo, fu accompagnato da stigma e pregiudizi, oggi è una realtà consolidata, dedicata alle cure palliative, con un personale stabile e motivato professionalmente
MORI. Il 15 febbraio 2012 veniva accolto all'Hospice «Amedeo Bettini», all'interno dell'Apsp Cesare Benedetti, il primo ospite. Allora come oggi a dirigere l'ente c'è Antonino La Grutta, che ricorda: «Tutto inizia col protocollo d'intesa del 10 ottobre del 2007: impegnava l'Apsp a finanziare l'Hospice che poi avrebbe gestito direttamente. Si avviò anche l'iter dei pareri e degli accreditamenti, i lavori edili durarono dal 2009 al 2011. Si arrivò alla firma della convenzione il 14 febbraio».
Il presidente Gianmario Gazzi aggiunge: «Per il cda e per tutta la comunità di Mori, l'Hospice è motivo di orgoglio. Anzitutto per il lavoro incessante a favore delle persone e dei loro cari. Molte erano le polemiche all'inizio, ma oggi nessuno metterebbe più in discussione questo fondamentale servizio. È stato difficile combattere il pregiudizio ma ci siamo riusciti, col lavoro dei nostri professionisti cui va tutto il nostro ringraziamento per la dedizione e l'impegno».
In 10 anni sono stati 1.624 gli ospiti, per un ente che allora era pionieristico. Spiega il direttore: «È stato il primo hospice del Trentino, anche se c'erano alcuni posti dedicati nell'ospedale di Mezzolombardo». Una struttura che si è rivelata fondamentale per accompagnare le persone e le famiglie in una fase delicatissima e che ha contribuito a considerare gli hospice anche come luoghi di vita e non solo di morte.«Il servizio che si offre qui è un accompagnamento a persone che, affette da una malattia inguaribile, percorrono l'ultimo tratto della vita.
Esistono però anche ricoveri temporanei, di sollievo, al termine dei quali si torna a casa: possono servire, ad esempio, per stabilizzare le terapie farmacologiche. Abbiamo ricoveri con una media di un paio di settimane, ma ce ne sono di un giorno fino ad arrivare a quello più lungo: 333 giorni.
Quanto all'età media siamo sui 70 - 75 anni, anche se purtroppo abbiamo accolto anche persone più giovani, come un ragazzo di 27 anni. Il nostro ospite più vecchio, invece, ne aveva 101».
L'Hospice induce inevitabilmente a confrontarsi su un tema che spesso si preferisce evitare. «In questi anni abbiamo visto cambiare la mentalità non solo di chi arriva qui, ma anche della comunità. Questa casa ha una valenza di cura, di dignità, di comprensione della persona e dei suoi familiari. Ho un mio personale orgoglio nell'aver visto nascere questa struttura, con servizi la cui qualità è ora nota a livello provinciale e oltre: lo dobbiamo anche alle attività di formazione e comunicazione dell'associazione di volontari che si è costituita appena un anno dopo l'apertura e che, non a caso, ha scelto il nome "Vivere in Hospice"».
L'Amedeo Bettini di Mori, nato come riferimento per la Vallagarina, ha ora ospiti da tutto il Trentino e non solo. Il personale ha poco turnover: più del 60% di chi prese servizio 10 anni fa è ancora qui. Ciò è dovuto probabilmente anche al fatto che, pur affrontando molti momenti difficili, costante è l'attenzione al lavoro di équipe, che garantisce supporto tra professionalità.
«La vicinanza tra Casa di riposo e Hospice - spiega ancora il direttore - porta scambio continuo di competenze e crescita professionale».
In 10 anni si sono assommati anche gli aneddoti curiosi, come il confronto con la cultura Sinti, ma anche con tante altre nazionalità, tanto che talvolta è stato necessario contattare le ambasciate. Qui sono stati celebrati anche due matrimoni e molti compleanni.
All'Hospice le stanze hanno i nomi delle vette montane del Trentino e possono essere arredate e personalizzate. In ognuna c'è un divano letto per accogliere i familiari e anche gli animali da compagnia sono accettati. Ci sono anche cucina, sala comune, spazio per i bimbi, giardino degli aromi e una sala spirituale pensata per non essere connotata con alcuna religione, in modo da accoglierle tutte.
«Si ha la percezione di poter vivere con l'ospite un tempo limitato e, anche per questo, si entra subito in una relazione empatica e si raccoglie molto del suo vissuto».
L'équipe dell'Hospice vede impegnati infermieri, oss, il medico palliativista Riccardo Bastianetto, la coordinatrice Alessia Bonola, la psicologa Mara Marchesoni. Chiacchierando con loro emerge che in questi 10 anni sono cresciute la struttura, le professionalità e la consapevolezza da parte del territorio. «All'inizio era forte il sentimento che questo fosse solo un luogo di morte. Ora si conoscono meglio le cure palliative. Arrivare qui significa spesso vivere quello che si chiama "lutto anticipatorio", ma significa anche percepire di non essere soli. È cambiata anche la tipologia del paziente: per alcuni la malattia, pur incurabile, non è nella fase terminale e il ricovero può essere un passaggio temporaneo. Peraltro, qui non ci sono solo pazienti oncologici».
I professionisti spiegano che il lavoro di équipe consente anche di distribuire le fatiche, rileggerle e condividerle. «Un passo fondamentale è non percepire la morte in termini di fallimento professionale: lo sguardo è sulla qualità e sulla dignità di vita».
Rispetto al servizio: «Ovviamente dobbiamo seguire procedure e protocolli, ma è sempre altrettanto forte l'attenzione per quello che l'ospite ci spiega. Cerchiamo di non dare nulla per scontato e il focus è sempre sulle persone e non sulla malattia. L'Hospice, oggi, è la somma di tutte le storie che qui sono state raccontate. Quando abbiamo iniziato il servizio siamo stati noi a disimballare i mobili e a decorarne qualcuno. Ora sono tanti gli oggetti lasciati da chi è passato: ognuno porta una testimonianza, ma indica anche che la vita prosegue».