Addio Tano Bianchi, genio ribelle: dal giornalismo all’enologia, ricordo di un trentino scomodo
Gigi Zoppello (“L'ho avuto come collega, quando era corrispondente dell'Adige per la Vallagarina”) ci racconta la vita ostinata e contraria di un osservatore cinico e fragile che odiava il Potere
E' difficile scrivere della morte di Tiziano "Tano" Bianchi, quale che sia la causa (da accertare) del duplice decesso del giornalista e della anziana madre. Partiamo dalla fine: in quella casa di Brentonico, dove Tano faceva sventolare la bandiera dei Viet-Cong sul terrazzino, lui e la madre erano diventate delle piccole celebrità della rete: su Facebook infatti lui pubblicava quasi ogni giorno delle fotografie della anziana, con dei piccoli frammenti della loro vita quotidiana. Cose tipo il commento di lei ai piatti che lui cucinava. Immancabilmente ogni storiella terminava con una frase in dialetto in cui lei esprimeva il suo disprezzo per il figlio che - in sostanza - non era venuto come lei voleva. Non si era sposato, non aveva fatto i soldi, non aveva un lavoro vero, e non sapeva nemmeno cucinare.
Siparietti degni di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, ma che erano irresistibili per la verve sarcastica, la vena amara, poetici come il disincanto, terribili come la vita, e densi di dialetto e tradizione locale.
Come si era ridotto a questa macchietta, il Tano? Perché diciamo che Tiziano Bianchi era un genio, di quella categoria di genii che non sanno stare zitti e che per questo diventano ben presto fastidiosi ai potenti, agli arrogantelli, ai caporali ed ai colonnelli di mezza tacca. E Tano Bianchi provocava queste scosse telluriche in ogni campo del suo vasto ed acuto sapere.
Da giovane era una promessa del giornalismo: era andato a Milano, perché la asfittica provincia trentina non averva posto per lui. Cercava orizzonti grandi, ma aveva capito che anche alla ribalta nazionale la guerra era feroce, fra gli Entusiasti ed i Furbetti. Vincono sempre i Furbetti. Scriveva bene. Scriveva benissimo. Aveva una grande senso della notizia. ma era il terrore dei Direttori di giornale, perché era ingovernabile. Una merce rara, soprattutto di questi tempi: sapeva indagare, sapeva scavare, sapeva scrivere senza remore, sapeva sputtanare quando c'era bisogno di farlo. E per questa sua inflessibile rettitudine - "fedele alla linea sempre" - pagava le conseguenze.
L'ho avuto come collega, quando era corrispondente dell'Adige per la Vallagarina. Un collaboratore prezioso, che avrebbe meritato le stellette di giornalista professionista (lo era, ma senza titoli). Ma forse è meglio così. A Brentonico aveva agitato le acque della politica locale in ogni modo. Senza mezze parole, sempre in posizione ostinata e contraria. Ma c'erano altri campi del sapere in cui eccelleva (e per questo era temuto). Ad esempio il vino.
Potrei dire che era un bevitore, ma non sarebbe un complimento. Era un bevitore appassionato ed esigente, un Gianni Brera del Marzemino. L'ultimo suo lavoro, un fantastico libro dedicato ad un eretico del mondo cooperativo vitivinicolo trentino: Nereo Cavazzani. Un libro che ha portato una delle poche lucide analisi di critica al colosso della cooperazione enologica.
E anche qui, un solo nemico, aveva Tano Bianchi: il Sistema. Il Sistema del Conformismo trentino. Quel mondo che oggi è a sinistra e domani bacia la mano alla destra, a seconda della convenienza. E lui, invece, sventolava la bandiera con la stella rossa Vietnamita. Tano Bianchi è stato un grande, e spero che un giorno il Trentino lo riconoscerà. E speriamo che lo faccia senza parole di circostanza, senza lacrime di coccodrillo.
Abbia pace Tano, abbia pace la madre, e sventoli ancora quella bandiera di utopia, ribellione, sberleffo. Che ne abbiamo tanto bisogno.