Albanese spacciava droga, la Questura lo espelle ma il Consiglio di Stato lo «salva»
Determinante il fatto che con lui andavano espulsi la moglie e i tre figli che vanno a scuola: «Episodio isolato, non motivata la pericolosità sociale», ribaltata la sentenza del Tar
VALSUGANA. Salvato dalla famiglia e dal lavoro. È il caso di un lavoratore albanese che - dopo una permanenza ventennale in Valsugana - ha rischiato di dover abbandonare il Paese di adozione perché la Questura gli aveva revocato il permesso per soggiornanti di lungo periodo.
All'immigrato - ma di fatto anche a moglie e tre figli in età scolare - era stato dato tempo 15 giorni per lasciare il territorio nazionale. Il sogno italiano della famiglia albanese stava per essere spazzato via, e questo per responsabilità (o meglio per l'irresponsabilità ) del capofamiglia che dopo 16 anni di onesto lavoro era finito agli arresti - prima in carcere e poi ai domiciliari - per spaccio di droga.
Un reato pesante, chiuso con una sentenza di patteggiamento con pena di 2 anni e 7 mesi di reclusione che aveva indotto la Questura a dare una prognosi di pericolosità sociale dello straniero con conseguente revoca del permesso di soggiorno. Provvedimento poi confermato dal Tar che respinse il ricorso dell'albanese.
Provvedimento però ora annullato dal Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso in appello presentato dell'avvocato Michele Busetti. Il massimo organo di giustizia amministrativa ha stabilito che non erano stati ponderati gli interessi in campo: quello alla pubblica sicurezza e quello privato alla tutela della vita familiare, che coinvolge non solo il cittadino straniero ma anche i suoi congiunti, la moglie ed i tre figli nati e cresciuti in Italia.
«Nel caso di specie - scrive in sentenza la Terza Sezione del Consiglio di Stato - la motivazione sulla ponderazione degli opposti interessi deve ritenersi solo apparente, in quanto nel decreto del Questore non si forniscono elementi concreti dai quali desumere che la valutazione di pericolosità sociale, desunta dal solo titolo del reato per il quale il cittadino albanese è stato condannato, sia stata concretamente eseguita tenendo conto di tutte le circostanze del caso; neppure risulta che tale giudizio sia stato effettivamente e concretamente bilanciato con l'interesse del cittadino straniero alla permanenza nel territorio nazionale, tenendo conto dei parametri indicati dal legislatore (lunga permanenza sul territorio nazionale, svolgimento di regolare attività lavorativa, inserimento sociale, tutela della famiglia).
In particolare - sottolineano i giudici del massimo organo della giustizia amministrativa - «la condanna costituisce un episodio isolato; è ampio l'intervallo temporale intercorso tra la commissione del reato e la condotta successiva; è stata disposta l'ammissione provvisoria alla misura alternativa in considerazione della mancanza di concreti ed attuali indici pericolosità sociale». Inoltre - sottolinea l'avvocato Busetti - l'Ufficio di esecuzione pena scrive che il condannato «ammette la propria responsabilità nelle vicende che lo hanno portato alla condanna in modo molto consapevole e maturo senza false giustificazioni rispetto quanto commesso e alla gravità di tali comportamenti».
Ma accanto a valutazioni di ordine giudiziario andavano approfonditi anche gli aspetti familiari: l'immigrato dispone di una abitazione; ha moglie e tre figli minori che mantiene con il suo lavoro; guadagna circa 1.700 euro al mese. «Da tali elementi si evince che l'intera famiglia è socialmente inserita nel territorio nazionale».
In proposito il Tar era arrivato a valutazioni opposte sottolineando che «la famiglia non ha costituito alcun deterrente» e «non può costituire scudo o garanzia assoluta di immunità». Certo, la revoca del permesso i soggiorno avrebbe colpito i più deboli e incolpevoli: i tre figli nati e cresciuti in Italia dove, grazie alla sentenza del Consiglio di Stato, potranno ora rimanere.