Morte sul lavoro, condanna esemplare: omicidio colposo, 4 anni e 5 mesi. Il corpo del giovane boscaiolo fu spostato
Vitali Mardari perse la vita tre anni fa mentre lavorava nei boschi della val delle Moneghe: fu colpito da un cavo. L'imputato, un imprenditore, era accusato di aver allertato i soccorsi solo dopo aver trascinato il corpo a 600 metri dal luogo del tragico incidente, per allontanarlo dall'area in cui la vittima era al lavoro
TRENTO. Ludmila Mersari, sorella del boscaiolo morto nei boschi della val delle Moneghe il 19 novembre del 2018, dopo la lettura della sentenza si è lasciata andare ad un pianto liberatorio.
L'imprenditore bellunese che aveva ingaggiato in nero il giovane operaio moldavo per lavori forestali è stato condannato dal Tribunale di Trento a 4 anni e 5 mesi di reclusione per omicidio colposo.
Pena severa , senza il riconoscimento neppure delle attenuanti generiche.
Pena che però è in linea con la gravità delle accuse contestate al 44enne bellunese Riccardo Sorarù.
Dopo il grave incidente, causato dal cedimento di un cordino in acciaio che serviva come teleferica per i tronchi, invece di precipitarsi a chiamare i soccorsi l'uomo perse tempo trascinando il corpo del ferito, a piedi e poi in auto, per circa 600 metri, fino alla strada dove il giovane di origini moldave venne coperto con due pezzi di legno.
Solo a questo punto l'odierno imputato chiamò i soccorsi dichiarando di non avere rapporti con la vittima.
Il povero Vitali Mardari morì poco, dopo nonostante i tentativi di rianimazione di un vigile del fuoco e dipendente del Comune di Sagron Mis, primo ad arrivare sul posto con un defibrillatore.
La sorella di Vitali Mardari, assistita da Giesse Risarcimento Danni e costituita parte civile nel processo dall'avvocato Marco Mayr (il giudice le ha riconosciuto una provvisionale di 110 mila euro), si è sempre battuta perché la verità venisse a galla.
E grazie alle indagini condotte dei carabinieri e coordinate dal pm Giovanni Benelli la dinamica di quanto accadde nei boschi è stata ricostruita con chiarezza.
Una dinamica agghiacciante perché forse il ragazzo avrebbe potuto salvarsi se i soccorsi fossero stati chiamati subito.
Erano trascorse poche settimane dal disastro di Vaia quando Vitali Mardari (nella foto), tramite comuni conoscenti, si accordò con Sorarù per aiutarlo con un lavoro nei boschi di Sagron Mis.
Tutto ciò senza un regolare contratto. Anzi con loro erano presenti altri due lavoratori, anch'essi "in nero".
Il gruppo si mise al lavoro tra gli alberi schiantati, tirando un lungo cavo d'acciaio che avrebbe dovuto servire da teleferica per il trasporto del legname.
All'improvviso, a causa dell'utilizzo di un mezzo non idoneo (un escavatore) per tendere la corda metallica, il cavo si spezzò, colpendo, come fosse una gigantesca frusta, il povero Mardari.
Il giovane finì catapultato a una ventina di metri di distanza. Sorarù, invece che prestare immediato soccorso all'infortunato, con l'aiuto degli altri due uomini trasportò il corpo di Mardari vicino al ciglio della strada e solo poi avvisò i soccorsi (mentre gli altri lavoratori "in nero" si erano dileguati, ma sono poi stati rintracciati dai carabinieri diventando tra i principali testimoni a sostegno dell'accusa).
Sin dal primo giorno gli inquirenti capirono che il giovane boscaiolo era morto in circostanze non chiare.
Gli stessi sanitari accorsi sul posto ipotizzarono un'incongruenza tra le ferite riportate e il luogo del ritrovamento.
Nelle settimane successive, grazie alle numerose testimonianze raccolte, hanno fatto luce su quanto accadde nel bosco.
È emerso così che i tre lavoratori ingaggiati per tagliare alberi in Val delle Moneghe erano tutti senza regolare contratto, privi di formazione specifica e di dispositivi di protezione individuale.
Eppure pronti a spaccarsi la schiena per poche decine di euro al giorno.
«Si tratta di un caso gravissimo - sottolinea Maurizio Cibien, responsabile della sede Giesse di Trento - accaduto nella più totale noncuranza di qualsiasi norma di sicurezza sul lavoro. A ciò si aggiunge quanto successo immediatamente dopo l'incidente, con il corpo del povero Vitali preso come un sacco di immondizia, fatto che ha contribuito a far sprofondare la famiglia in un dolore ancor più grande».
A tre anni dalla tragedia le lacrime di Ludmila sono l'unica cosa umana di questa storia di lavoro e barbarie.