È morto Jorge Videla, ex dittatore argentino
Jorge Rafael Videla, l'uomo simbolo della feroce dittatura della destra argentina, con i suoi 30 mila morti, le centinaia di neonati rapiti a genitori giustiziati, le prigioni di tortura e la tragedia dei desaparecidos, è morto ieri a 87 anni in una prigione della provincia di Buenos Aires. La notizia è arrivata in città di prima mattina, subito seguita da un'ondata di reazioni sui media e nelle reti mondiali, tutte improntate alla condanna dell'ex generale «genocida» e ai ricordi degli anni di piombo nel paese
Jorge Rafael Videla, l'uomo simbolo della feroce dittatura della destra argentina, con i suoi 30 mila morti, le centinaia di neonati rapiti a genitori giustiziati, le prigioni di tortura e la tragedia dei desaparecidos, è morto ieri a 87 anni in una prigione della provincia di Buenos Aires.
La notizia è arrivata in città di prima mattina, subito seguita da un'ondata di reazioni sui media e nelle reti mondiali, tutte improntate alla condanna dell'ex generale «genocida» e ai ricordi degli anni di piombo nel paese. L'ex dittatore aveva avuto un malore giovedì sera e non aveva voluto cenare, ha dichiarato alla stampa militare la moglie di un militare, Cecilia Pando. È deceduto per cause naturali.
Le autorità carcerarie hanno riferito che Videla (nella foto con il capo di Stato maggiore della Marina, Emilio Eduardo Massera, membro della giunta militare) «è morto alle 8.25» nella sua cella del carcere di Marcos Paz, dove era rinchiuso nel padiglione dei condannati per crimini contro l'umanità, in compagnia cioè di altri 25 militari «represores», colpevoli di torture e di casi di desaparecidos. A centinaia vennero narcotizzati e ancora vivi buttati da un aereo nelle acque del Rio de la Plata, in quelli che a Buenos Aires sono noti come «i voli della morte» e magistralmente raccontati nel film «Garage Olimpo» di Marco Bechis.
Alcuni siti web hanno invece pubblicato fotografie dell'ex dittatore che lo mostrano in cella seduto sul suo letto, con alle spalle un grande crocifisso. Videla recitava infatti il rosario tutti i pomeriggi e andava regolarmente a messa. «Credo che Dio non mi abbia mai abbandonato», affermò qualche mese fa in un'intervista. Peraltro la gerarchia della chiesa cattolica argentina è sempre stata accusata di connivenza con la dittatura. E proprio a questi rapporti - tema riemerso in occasione dell'elezione di papa Bergoglio - si è riferita tra gli altri la leader delle nonne di Plaza de Mayo, Estela de Carlotto (di recente anche in Trentino Alto Adige per un giro di conferenze): «Non si era mai pentito e rivendicava i suoi delitti», ha accusato, accennando inoltre al fatto che la chiesa ha «in parte accompagnato» quanto fatto da Videla, che «ora starà rispondendo in altre sedi dei suoi delitti». L'ex dittatore non è morto a casa sua, in libertà, ma in un carcere senza godere di impunità.
A ricordarlo sono soprattutto i familiari delle vittime ma anche il governo della presidente Cristina Fernandez de Kirchner, la leader di un peronismo che ha avuto proprio nei militari - e per tanti anni - il principale nemico storico. Il premio Nobel per la pace argentino Adolfo Pérez Esquivel, che per anni ha denunciato gli abusi della dittatura: «Ha passato la vita a provocare danni gravissimi, e ha marchiato la vita del Paese», ha detto. «La sua morte elimina la presenza fisica, ma non ciò che ha fatto al Paese».
LA STORIA
Nella finale dei mondiali di calcio del 1978, nello stadio del River Plate, al fischio che decretò il trionfo della nazionale argentina il generale Jorge Rafael Videla alzò le braccia in segno di giubilo. Un'istantanea agghiacciante lo ritrae così, mentre a pochi isolati, nella famigerata Scuola di meccanica della marina (Esma), centinaia di «desaparecidos» torturati languivano in cella, in attesa di essere gettati vivi da un aereo nelle acque del Rio de la Plata.
È una delle pagine più nere del regime di Videla, condannato a un doppio ergastolo per crimini contro l'umanità dei quali non si è mai pentito e che, anzi, ha rivendicato nel corso dei suoi processi. Ogni mercoledì i dissidenti politici prigionieri, bendati e legati, erano imbarcati su aerei cargo a Buenos Aires e gettati in mare: vennero ammazzati così almeno 789 persone. Era l'Operazione Condor, l'internazionale del terrore nella quale era coinvolta anche la Cia e che venne attuata più o meno in simultanea anche in Cile, Bolivia, Brasile, Perù, Uruguay e Paraguay contro tutto ciò che aveva odore di comunismo o socialismo.
Dopo il golpe del 1976 contro il governo di Isabelita Peron iniziò nel Paese latinoamericano la tragedia dei «desparecidos». Sindacalisti, dissidenti, guerriglieri, studenti, politici: nessuno si salvò. Ufficialmente, gli assassinati furono 9.000, secondo le organizzazioni per i diritti umani, invece, 30.000. Accanto a questa tragedia, quella dei loro figli. Centinaia di bambini venuti alla luce da madri detenute, torturate e uccise, furono dati in adozione - nell'arbitrio più totale - alle famiglie di militari responsabili diretti di sevizie e omicidi di quei genitori rimasti senza nome e senza esequie. Le madri e le nonne delle due sventurate generazioni si ritrovano da decenni nella Plaza de Mayo, per ricordare i morti e testimoniare la ricerca di figli e nipoti.
Ma Videla, durante il processo del dicembre 2012 che lo ha condannato ad altri 50 anni di carcere per l'orrore dei bambini rubati, si è giustificato così: «Le madri erano militanti attive nella macchina del terrore e molte hanno usato i loro figli non nati come scudi umani».