Riforme, minoranza Pd dura «comica rigidità del governo»
Rissa attorno a mezzanotte e mezzo alla Camera dei deputati, nel corso della seduta fiume voluta dal governo per accelerare la modifica della Costituzione sacrificando il dibattito in aula. Un atteggiamento contestatissimo da tutte le opposizioni, con M5S che ieri ha apertamente accusato il premier Renzo di autoritarismo.
Dura anche la Lega Nord, mentre si è addirittura arrivati al contatto fisico fra deputati del Pd e di Sinistra ecologia e libertà, due partiti che si erano presentati come alleati al voto del febbraio 2013 ma poi divisi da ritorno delle larghe intese col centrodestra. Eloquente, in proposito, la scazzottata tra deputati di Sel e di Pd con questi ultimi minacciosamente in piedi davanti ai banchi dei colleghi di Sel [video], all'estrema sinistra dell'emiciclo.
Fra i punti maggiormente contestati della riforma, difesa in aula dal ministro Maria Elena Boschi, figurano la mancata elettività e la composizione del nuovo Senato regionale, così come una svolta centralista che indebolisce l'impianto regionalista dello Stato. Molte le critiche al governo anche sull'atteggiamento assunto verso il Parlamento: si accusa Renzi di imporre la riforma mortificando i il ruolo dei rappresentanti eletti dal popolo.
L'ex sindaco di Firenze anche ieri sera ha ribadito però che non si fanno pause di riflessione: la riforma deve andare avanti spedita, malgrado le proteste delle minoranze, compresa quella del Pd. Ma in realtà l'alta tensione in aula sta producendo un rallentamento. Comunque sia, l'ultima parola spetterà agli elòettori con un referendum e l'ultima volta che furono chiamati alle urne sulla riforma costituzionale, dopo le norme varate dal centrodestra nel 2005, si espressero in maggioranza contro le modifiche alla Carta fondamentale.
Dopo il caos in aula di ieri notte, all'1,30 è arrivato anche Renzi. La minoranza Pd gli ha chiesto per oggi un'assemblea del gruppo per esprimere il malumore per il «pantano» in cui è finita la riforma.
L'aggressione fra deputati
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Con grande lentezza, tra infinite discussioni procedurali, il cammino delle riforme Costituzionali dunque prosegue alla Camera, dopo la contestatissima decisione presa dalla maggioranza mercoledì notte di portare avanti una seduta «non stop».
Il governo non ha portato in porto un accordo con il M5S, dopo una mediazione promossa dal deputato trentino Riccardo Fraccaro, che prevedeva il ritiro di gran parte degli emendamenti ostruzionistici in cambio dell’approvazione di altri, un’ipotesi giudicata non accettabile dal Pd, cosa che ha provocato la reazione sdegnata dei pentastellati che, pur rimanendo in aula, non hanno preso parte dalle votazioni.
E lo stesso Fraccaro ha contestato apertamente l'operato della presidente di turno Marina Sereni (Pd): «Lei dovrebbe fare i conti con la sua coscienza perché difendere l'indifendibile vuol dire essere complici di quel gesto. Lei è complice di una presidenza che è succube e schiava di una maggioranza incostituzionale», ha detto di fronte all'ennesimo diniego di una sospensione dei lavori. Nel corso della seduta dai banchi dei cinquestelle si è levato anche un coro rivolto alla presidenza, accusata di gestire i lavori secondo la volontà del governo: «Serva, serva...».
Ma le tensioni si sono manifestate anche nella maggioranza, compresa una mancanza di numero legale che ha provocato l’irritazione della presidente Laura Boldrini. Mentre Forza Italia, nel rimarcare il suo disappunto per la marcia a tappe forzate imposta dal governo, si appella al capo dello Stato Sergio Mattarella.
M5s rimane il gruppo di opposizione che in nottata ha praticato con più vigore il filibustering, con continui interventi sull’ordine dei lavori e sul regolamento, che hanno di fatto bloccato il voto sugli emendamenti, ridottisi notevolmente dopo che Fi e Lega hanno ritirato quelli ostruzionistici.
Di qui il tentativo del relatore Emanuele Fiano, del vicecapogruppo del Pd Ettore Rosato e del governo, di trovare una intesa con M5s per sbloccare i lavori. I Pentastellati hanno posto però come condizioni l’approvazione di un certo numero di emendamenti (inizialmente sette e poi scesi a tre) tesi a favorire la «democrazia diretta»: eliminazione del quorum nei referendum, obbligo della Camera di esaminare le leggi di iniziativa popolare, possibilità delle minoranze parlamentari di ricorrere alla Corte costituzionale (l’attuale testo del ddl lo ammette solo per le leggi elettorali). Le richieste sono state però respinte da Pd e governo, provocando anche l’ira di Beppe Grillo sul blog.
In aula i deputati di M5s hanno proseguito la loro battaglia ostruzionistica, marcando con la non partecipazione alle votazioni il dissenso rispetto alla decisione della seduta fiume che a suo dire restringe l’esercizio del dibattito parlamentare e dell’approfondimento sulle delicate tematiche costituzionali. Seduta fiume che poi viene dichiarata illegittima anche dalle altre opposizioni, tanto che il capogruppo di Fi Renato Brunetta ha chiamato in causa il presidente della Repubblica Mattarella.
Ma la tensione è altissima anche dentro la maggioranza, a causa dei «niet» opposti dal ministro Maria Elena Boschi a numerosi emendamenti.
Una «rigidità», secondo Alfredo D’Attorre della minoranza del Pd, che dopo la fine del Patto del Nazareno, risulta «incomprensibile e comica».
In particolare la minoranza del Pd insiste affinchè sia inserita la norma transitoria che permetta un giudizio preventivo della Corte costituzionale sull’Italicum: emendamento su cui c’era il veto di Fi, che però ora si è sottratta al Patto.
La linea del ministro Boschi è comunque di apportare il minor numero di modifiche al testo licenziato dal Senato, nella speranza che esso poi confermi quanto deciso dalla Camera in questa lettura. «Ieri - minaccia D’Attorre - abbiamo garantito che la riforma andasse avanti e ci aspettavamo che dopo la fine del patto del Nazareno cambiasse il metodo. Se continua così ci sentiremo liberi di votare le nostre proposte in aula, emergeranno le divergenze nel Pd».
Netta la reazione del vicesegretario del partito Lorenzo Guerini: «Non capisco la polemica di D’Attorre. La minoranza Pd è stata sempre coinvolta, ci siamo confrontati per lungo tempo apportando modifiche anche volute da loro. Mi aspetto da tutti un atteggiamento responsabile e leale».
E il primo segnale di questa situazione di tensione interna ai dem si è avuto proprio all’apertura della seduta, stamane, quando i deputati della maggioranza non erano sufficienti per garantire il numero legale.
La diretta dalla Camera
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Alta tensione, dunque, dentro il Pd, ma anche in Forza Italia. Il tentativo di Silvio Berlusconi di serrare i ranghi dopo settimane di tensioni e strappi interni un primo risultato lo ha prodotto: il giorno dopo la riunione dei gruppi azzurri, tra le file dei parlamentari è sceso il silenzio, almeno sulle beghe interne.
Gli interventi infatti sono stati tutti rivolti a criticare provvedimenti e decisioni del governo.
L’input dell’ex premier ad alzare il tiro contro palazzo Chigi sembra essere stato recepito anche se ai suoi fedelissimi ha fatto capire che sulle riforme occorre cautela sopratutto per il voto finale: non posso sconfessare quello su cui ho messo comunque la faccia. In attesa di capire le prossime mosse, l’ex premier guarda con attenzione al calendario ed in particolare al 9 marzo, data cerchiata di rosso, che rappresenta la fine dei limiti alla sua libertà: tornerò in campo mi riprendo il partito e sono pronto a giocarmi in prima persona la rimonta per le regionali.
Ecco perchè l’ex premier vuole sgombrare il campo da ogni veleno. La notizia della vendita di azioni Mediaset (7% circa) avrebbe fatto pensare a più di qualche maligno che sia il frutto delle conseguenze del patto del Nazareno e del gelo con Confalonieri. Notizia che a sentire gli uomini dell’ex premier è priva di fondamento trattandosi di un’operazione meramente commerciale da parte del gruppo del Cavaliere.
Insomma, il clima è tutt’altro che sereno e prova ne sono i rapporti ai minimi storici con il capo della fronda azzurra Raffaele Fitto. L’ex governatore promette battaglia e ha già fatto sapere che non risparmierà un duro affondo contro la linea di Fi il 21 in occasione della sua convention. Un avvertimento su cui però l’ex premier vorrebbe evitare di controreplicare: Le liti ci danneggiano - è stato il ragionamento - basta a fargli da controcanto altrimenti gli diamo solo risalto.
Il Cavaliere prova dunque ad andare oltre lavorando alle elezioni regionali. Prima di fare rientro a Milano, Berlusconi ha incontrato la commissione elettorale di Fi che si occupa delle alleanze dando il via libera alla scelta del candidato per la Puglia. Il via libera alla candidatura di Francesco Schittulli rappresenta un primo passo verso la ricomposizione del centrodestra ed un chiaro messaggio a Matteo Salvini. L’ex presidente della provincia di Bari infatti godrà dell’appoggio di tutto il centrodestra, Ncd compreso ed ha ottenuto anche il via libera di Raffaele Fitto, «lo stimo da sempre, avrà il mio sostegno».
Il resto del rebus però è tutto da comporre soprattutto perchè, fanno sapere i consiglieri dell’ex capo del governo, lo scoglio principale da dover superare è quello della Lega Nord.
Raccontano che il Cavaliere non abbia preso particolarmente bene le uscite di Salvini all’indomani dell’incontro ad Arcore: ma come aveva concordato ogni passaggio e poi lui va a fare le pulci al nostro pedigree, è il ragionamento fatto con la sua cerchia ristretta. Ecco perchè il messaggio inviato al leader leghista è chiaro: il Carroccio ritiri i suoi candidati e sediamoci intorno ad un tavolo per parlare e trovare un accordo generale.
Un rischio però, a sentire diversi dirigenti di Fi, perché la «bomba» Salvini è tutt’altro che detonata soprattutto se il segretario del Carroccio presenterà la lista della Lega in Puglia e Campania. Una corsa in solitario per evitare intese con Ncd ma che comunque andrebbe a sottrarre voti al centrodestra.
L’ex premier però dal canto suo non vuole rinunciare ad un’alleanza con Alfano soprattutto per la corsa in Campania e la riconferma di Stefano Caldoro. E non è un caso infatti che Giovanni Toti, consigliere di Fi e ufficiale di collegamento nella partita delle alleanze si sia intrattenuto oggi a lungo nella sala del governo proprio con il leader Ncd. L’intenzione del nuovo centrodestra è chiara: pronti ad intese ma non accettiamo diktat della Lega.