Gran Bretagna verso il voto: due partiti addio, rischio «arcobaleno»
Un voto di svolta che rischia di affossare la decantata stabilità del tradizionale modello bipartitico d’oltre Manica: si annunciano così le elezioni politiche del 7 maggio in Gran Bretagna, il cui esito appare incerto come mai in passato. Il Paese si trova di fronte a cambiamenti per certi versi epocali. Il modello politico basato sull’alternanza fra destra conservatrice e sinistra laburista è infatti destinato a scomparire. Nessuno dei due principali partiti appare in grado di far suoi, come accadeva un tempo, i «fatidici» 326 seggi alla Camera dei Comuni: necessari per avere la maggioranza assoluta e quindi per governare senza imprevisti.
Già l’esecutivo uscente è frutto di una coalizione siglata dopo le consultazioni del 2010 fra i Tory del premier David Cameron e i Libdem di Nick Clegg. Ma stavolta per i britannici si profila un «salto» ancora più estremo verso nuovi assetti fatti di alleanze «arcobaleno» in cui diversi partiti dovranno collaborare per tenere in piedi un governo: un passaggio che è quasi una nemesi verso modelli in voga in quell’Europa continentale verso la quale i sudditi di Sua Maestà hanno sempre guardato con diffidenza, talora con sussiego.
Il fatto che ci siano più contendenti in gioco non fa che aumentare la posta, già altissima. A partire dal futuro economico del Regno Unito, che continua sulla via della ripresa dopo che la crisi del 2008-2009 aveva seriamente minacciato il sistema bancario nazionale. Ora il Paese viaggia a gonfie e vele, almeno a livello di dati macroeconomici, con un Pil stimato per il 2015 al +2,5% e una disoccupazione scesa al 5,6%. I conservatori di Cameron, forti di questi risultati, propongono di andare avanti con la loro ricetta di contenimento della spesa, tagli e riduzione della pressione fiscale. E agitano lo spauracchio di un «caos economico» fatto di spese indiscriminate nel welfare e più tasse per tutti nel caso in cui dovesse vincere il Labour di Ed Miliband. Caos che diventerebbe «inferno» - agli occhi dell’establishment Tory e di una parte rilevante della City - nello scenario di un ipotetico accordo - che sposterebbe l’asse ancora più a sinistra sul fronte della politica economica - tra il partito di Miliband e la nuova protagonista della politica britannica, la leader dei nazionalisti scozzesi Nicola Sturgeon: schierata apertamente con il suo Snp contro l’austerity, per lo stato sociale e per un rilancio dell’intervento pubblico, ma senza rinunciare a una totale autonomia fiscale della Scozia.
Miliband, invece, punta il dito contro la «ripresa per pochi» di Cameron e chiede che i benefici economici della ripresa vengano estesi a tutti. Secondo lui, larghe fasce della popolazione hanno visto in effetti peggiorata la loro condizione negli ultimi anni. Ne sarebbe una riprova fra le altre il picco nel numero di richieste di assistenza da parte di indigenti in cerca di un pasto quotidiano. Secondo un rapporto del Tussel Trust, organizzazione che gestisce una rete di cosiddette «banche del cibo» nel Regno Unito, in 12 mesi vi sono state più di un milione di domande di sostegno alimentare, con un’impennata rispetto al passato recente. Il Labour propone nuovi investimenti in sanità ed educazione e un carico fiscale maggiore sui più ricchi: dalla reintroduzione dell’aliquota massima al 50% fino all’abolizione delle agevolazioni per i residenti non domiciliati. Il futuro economico è d’altronde strettamente legato ad altri due temi fondamentali di queste elezioni: l’Europa e l’immigrazione.
Cameron ha promesso di tenere un referendum sul destino europeo del Regno Unito nel 2017, sempre nel caso di una sua vittoria alle urne. E, intanto, prima del referendum, il leader conservatore intende rinegoziare i rapporti con Bruxelles riportando a Londra alcuni poteri. In particolare vorrebbe introdurre limiti agli ingressi di immigrati nel Regno Unito, su cui ha già imposto un primo giro di vite, andando però contro il principio di libera circolazione su cui si basa l’Unione. Su questo punto è già chiaro il «no» di Bruxelles e di Berlino. E non sarà facile per Cameron gestire la partita viste le pressioni dell’ala più anti-Europea del suo partito e soprattutto la popolarità dell’Ukip di Nigel Farage, che ha basato il suo programma proprio sull’uscita dall’Ue e sull’imposizione di limiti drastici agli ingressi di stranieri. Il rischio è che un fallimento del leader dei Tory porti all’esasperazione il sentimento euroscettico di tanti britannici e che così si arrivi alla tanto temuta «Brexit», l’uscita del Regno Unito dall’Europa.